L’archiviazione delle indagini sul suicidio di una donna a seguito della pubblicazione di suoi video privati riporta all’attualità il tema della responsabilità degli intermediari
di Andrea Monti PC Professionale maggio 2017
Nel settembre 2016 una donna campana si suicidò quando qualcuno diffuse tramite Facebook dei video che la ritraevano in rapporti sessuali consenzienti.
A seguito di quel fatto, i familiari della donna presentarono una querela per diffamazione che, la notizia è dei primi di aprile 2017, è stata archiviata dal giudice per le indagini preliminari di Napoli che, come riferisce Repubblica.it,
ha però disposto un supplemento di indagine chiedendo alla Procura di verificare eventuali responsabilità del legale rappresentante di Facebook Italia.
Al di là del merito della vicenda, nel quale non intendo entrare, questo caso è importante perché costituisce l’ennesima sintomo dell’incapacità dello Stato di individuare e punire i veri responsabili di atti illeciti, scaricando inaccettabilmente su provider e fornitori di servizi internet doveri che non spettano loro.
Per capire il senso di questa affermazione, è importante ricordare innanzi tutto che secondo la Costituzione italiana, la responsabilità penale è personale. Questo significa che se viene commesso un reato, potrà essere condannato solo ed esclusivamente chi lo ha commesso. Non anche parenti, affini o collaterali, come accadeva qualche secolo fa nel diritto barbarico o – ancora oggi – nelle “vendette trasversali” praticate nel mondo della criminalità organizzata.
Per molto tempo questo principio non è mai stato messo in discussione, fino a quando, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso, le lobby del copyright hanno cominciato a cercare di coinvolgere gli internet provider nei fatti illeciti commessi dagli utenti.
Era l’epoca del Peer-to-Peer, di Napster e di E-mule, e fra politici e (alcuni) giuristi cominciò a farsi strada l’idea che anche il provider dovesse “pagare” perchè, alla fin fine, il fatto che gli utenti potessero “scaricare” impunemente si traduceva in maggiori abbonamenti e dunque in maggiori introiti. In realtà questo non è mai stato vero, perché la banda a disposizione degli utenti è gestita dinamicamente, sul presupposto che non tutti siano collegati contemporaneamente sullo stesso circuito. Quindi, un utente collegato per ore e ore occupa più banda e più a lungo, riducendo le prestazioni disponibili per gli altri.
Fatto sta, però, che come diceva Kennedy una bugia ripetuta molte volte diventa verità e sempre più spesso l’ISP era indicato come caprio espiatorio delle malefatte altrui.
A rinforzare la convinzione che gli ISP dovessero assumersi responsabilità che non spettavano loro, dopo quella del diritto d’autore arrivò l’ondata della pedopornografia: in nome della “tutela dei bambini” venne emanata una legge ipocrita che, applicando il principio “occhio non vede, cuore non duole”, si traduce nell’obbligare gli ISP a intercettare il traffico degli utenti e a impedire di raggiungere siti internet che ospitano materiale illegale.
A stretto giro, intercettazioni e blocchi sono stati estesi ai siti di scommesse online e a quelli che vendono materiale contraffatto (o importato in violazione di accordi contrattuali fra titolare del marchio e fabbrica estremo-orientale). Ma, come sanno gli utenti con un minimo di competenza tecnica, è abbastanza facile aggirare blocchi di questo genere e dunque rendere inutili queste misure.
Senza soluzione di continuità, a rinforzare il concetto, sono poi arrivati il “cyberbullismo” , lo “hate-speech” e le “fake-news”: tre anglicismi che consentono di spacciare per nuovi dei comportamenti illeciti ampiamente noti e praticati ben prima dell’avvento dell’internet. Basta pensare che l’incitazione all’odio razziale e l’istigazione alla violenza sono reati già dal 1993 grazie alla legge Mancino, mentre il codice penale (che risale al 1930) punisce all”art. 265
“Chiunque, in tempo di guerra, diffonde o comunica voci o notizie false, esagerate o tendenziose, che possano destare pubblico allarme o deprimere lo spirito pubblico”.
E’ vero che la norma si applica in tempi di guerra, ma volendo proprio emanare una legge sulle “fake news” sarebbe stato sufficiente eliminare dall’articolo in questione le parole “in tempo di guerra” per ottenere immediatamente il risultato.
Ma, ed è proprio questo il punto, applicare la legge Mancino o modificare l’articolo 265 del Codice penale implica doversela prendere con gli autori del reato, ma questa è una cosa che le Istituzioni non hanno realmente voglia di fare.
Mettere sotto processo decine di migliaia di ragazzini che scambiano canzonette e cinepanettoni, oltre che praticamente impossibile, sarebbe altamente impopolare. Indagare tutti gli imbecilli che scrivono fesserie sui social network sarebbe, oltre che impossibile, inutile. Celebrare processi penali per ingiuria o diffamazione ogni volta che qualsiasi “signor Rossi” ritiene di avere subito una lesione mortale del proprio onore, ingolferebbe gli uffici giudiziari, costringendoli ad occuparsi di questioni oggettivamente irrilevanti.
Meglio, dunque, scaricare questi fastidi sulle spalle degli ISP, costringendoli a mettere in piedi un sistema di giustizia privata e sommaria, e trasformandoi in inquisitori, giudici, boia sotto il ricatto di pesanti sanzioni nel caso questa inquisizione privatizzata non dovesse funzionare a dovere.
Questa soluzione provoca due conseguenze estremamente pericolose: la prima è la deresponsabilizzazione dell’individuo, che si convince ancora di più che quando è dietro un monitor può fare quello che vuole.
La seconda, non meno grave, è di affidare a soggetti privati il potere di decidere cosa possiamo o non possiamo fare online, con lo Stato che rinuncia a fare la sua parte.
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