Quando l’uso creativo di (parti di) opere altrui è vera creazione artistica e quando, invece, è soltanto un volgare plagio?
di Andrea Monti – Audioreview aprile 2017
Nel mondo della musica liquida il termine “campione” o sample è immediatamente associato alla quantità di informazione (ad esempio: 24bit) e al numero di volte al secondo (es: 96Khz) che viene rilevata durante il processo di registrazione di musica analogica.
Ma nel mondo della creazione e produzione musicale, questi termini hanno un significato diverso perchè possono identificare la digitalizzazione di suoni o di singole note prodotte da uno strumento, oppure si riferiscono a parti quasi “atomiche” di un pezzo musicale o di un’esecuzione, che ne isolano elementi ritmici, melodici o vocali (un riff, un arpeggio, un pattern ritmico, un vocalizzo).
Nel primo caso, oltre al suono, è possibile campionare anche il “tocco” dell’esecutore, cioè quel modo unico di interagire con lo strumento, che ci consente di riconoscere immediatamente se la versione di Cocaine che stiamo ascoltando è suonata da Eric Clapton, da Steve Winwood o da Mark Knopfler.
Nella produzione di un disco i campioni e la modellizzazione dei suoni, di cui parlerò nel prossimo articolo, hanno assunto un ruolo estremamente importante perché consentono di scollegare il gesto meccanico dell’esecuzione dal suo risultato. Per rendersi conto di cosa voglio dire, basta generare una Drummer Track in Logic Pro X (una Digital Audio Workstation professionale) o lanciare EZDrummer2 e curiosare nel suo groove browser.
Una volta compiuta l’operazione è possibile cambiare non solo il set di batteria, ma anche il modo in cui deve suonare. Il risultato è che gli stessi event suonano in modo sensibilmente diverso gli uni dagli altri. Producono un effetto musicale che varia al variare dei tanti parametri selezionabili e che (in caso di eccessi) portano la impeccabilità della registrazione del master al limite della glacialità espressiva. E qui arriva la prima domanda: di chi è il suono di Eric Clapton? O – detta in altri termini – ho il diritto di campionare il suo suono per usarlo in una mia composizione?
La prima risposta potrebbe essere negativa, ma non necessariamente sarebbe quella corretta, come sarà più chiaro leggendo le prossime righe che si occupano degli “altri” campioni, quelli che consistono, come dicevo, nell’estrazione di frammenti autoconsistenti di un brano, che possono essere riciclarti in un nuovo prodotto – una “opera derivata” come la chiamerebbero i puristi del diritto d’autore”.
A questo proposito, non ci si dovrebbe sorprendere più di tanto se il riff che apre Hang Up di Madonna somiglia alla intro di Gimme! Gimme! Gimme! degli Abba perché, in realtà, è esattamente quello. Per realizzare il disco, infatti, la cantante americana chiese il permesso a Benny Andersson and Björn Ulvaeus, autori del pezzo, di riutilizzarne quella parte, tanto che i due figurano esplicitamente nei credits del pezzo di Madonna.
Bene, potrà dire qualcuno, ma dov’è il problema? Qualcuno vuole utilizzare un pezzo altrui, chiede il permesso all’autore, l’autore… autorizza e il gioco è fatto. Non c’è molto da dire!
E invece no, perché la storia dell’uso dei sample come strumento di creazione artistica non è così lineare e – soprattutto – non nasce negli ambienti “chic” della produzione musicale.
Come ricorda Nicola Battista, produttore musicale e proprietario dell’etichetta indipendente Kutmusic, nell’articolo In difesa del campionamento scritto nel lontano 1998 (e ancora disponibile online):
… c’era stata tanta altra gente ad aver “rubato”, anche su vasta scala: a partire a dalla Sugarhill Gang (che depredava “Good times” degli Chic in “Rapper’s delight“) nel 1979 – ma in questo periodo erano operativi anche altri gruppi hip-hop che lavoravano con breakbeat rubati) – e dal primo megamix di Stars on 45 (1980). Che a quanto pare era fatto editando direttamente (intendo proprio con forbici e/o lamette) pezzi di nastro. I samplers intesi come apparecchi per convertire una fonte sonora analogica in una digitale e rielaborarla, erano ancora di la’ da venire.” Tra gli altri pionieri del sampling anni’80, Keith LeBlanc, gli Art of Noise, l’ex guru dei Sex Pistols Malcolm McLaren e Paul Hardcastle, la cui “19” era basata su un documentario dedicato alla guerra del Vietnam. Ma qui il campionamento era ancora di contorno o quasi.
In Italia, ricorda ancora Battista, l’archetipo del sampling è Funklab di Jovanotti, pubblicato nell’album For President del 1988. La lettura della brochure che accompagna il disco è estremamente esplicita e – per quanto riguarda questo articolo – interessante:
Funklab” è mitico. Per “Funklab” rischiamo di essere arrestati. E’ stato il primo pezzo che abbiamo fatto, e praticamente è fatto con niente, una base “rubata” a un disco, e gli strumenti sopra la base “rubati” ad altri dischi. Per cui noi in fondo non abbiamo fatto niente, abbiamo solo creato la situazione.
Più che l’arresto, Jovanotti ha rischiato di dover risarcire parecchi soldi per utilizzo non autorizzato di parti di brani altrui, ed è proprio qui che emerge chiaramente l’ipocrisia ideologia che caratterizza da sempre il diritto d’autore. Da un lato, c’è una norma che è usata per tutelare non chi crea, ma chi acquisisce il diritto di sfruttare la creazione artistica. Dall’altro, la stessa norma punisce chi crea in modo originale (notate l’intriseca contraddizione di questa espressione?), e dall’altro promuove a “genere musicale istituzionale” un modo di fare musica nato sulla violazione del diritto d’autore ma poi, in nome del profitto, “legalizzato”.
Detta in altri termini, la nascita di un modo diverso di creare, quello basato sui sample, non è accaduta in un conservatorio o in una scuola “ufficiale” di musica moderna, ma – letteralmente – in garage, sottoscala e camerette dove persone possedute dal démone della creatività hanno evocato un modo nuovo di usare la musica, infischiandosene di leggi, codici e pandette.
Ma mentre loro, in nome dell’Arte, hanno rischiato cause e processi, Jovanotti – e chi, come lui, ha usato e usa i sample nei propri dischi in modo non esattamente rigoroso – rischiano al più di non vincere un disco di platino.
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