Il caso di Imane Khelif, la pugile algerina oggetto di roventi polemiche alle Olimpiadi Parigi 2024 perché, scambiata erroneamente come “trans” dai media, non potrebbe combattere con una donna dovrebbe fare, sì, scandalo ma non per le ragioni che molti adducono a sostegno della sua esclusione o del rifiuto delle sue avversarie di incrociare i guantoni sul ring di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Italian Tech-La Repubblica
Il caso di Imane Khelif dovrebbe fare scandalo perché, in nome del “fair play”, una donna— perché Khelif è una donna — è costretta a subire trattamenti medici per “rientrare nella normalità” e non “ammazzare la competizione”.
Khelif, infatti, è iperandrogina, cioè in grado di produrre una quantità di testosterone superiore a quanto di regola può fare il corpo femminile. Questo ha degli effetti sulla morfologia fisica e sulle capacità atletiche che consentono di raggiungere prestazioni “fuori scala”, ma in ogni caso del tutto naturali perché frutto di una condizione non alterata da sostanze esogene —dalle “bombe” di ciclistica memoria.
Non si tratta di doping, perché è opportuno ricordare che le regole sul doping sportivo puniscono l’assunzione di sostanze o l’utilizzo di metodi che alterano la prestazione sportiva, ma da nessuna parte prevedono il contrario, cioè che un atleta troppo forte debba essere penalizzato perché, appunto, genera un “turbamento nella forza”.
In altri termini, il mondo dello sport fa questo ragionamento: se la natura ti regala un patrimonio genetico eccezionale, questo non va bene perché se sei troppo forte vinci sempre tu, e quindi alteri il “level playing field” ma — viene da pensare in termini più pragmatici — vanifichi anche la spettacolarità della gara cioè il suo valore economico e pubblicitario. Dunque, è come se a un giocatore di basket troppo alto da non poter essere “stoppato” chiedessero di segarsi le gambe, o a un velocista troppo veloce di correre con le zavorre o, come nel caso di Caster Semenya del 2009 e di Dutee Chand del 2014 (rispettivamente sudafricana e indiana) di doparsi al contrario per ridurre le proprie prestazioni appunto perché iperandrogine.
La vicenda di Caster Semenya merita un’attenzione particolare perché invece di subire i diktat della federazione mondiale di atletica, la velocista decise di contestarli arrivando, ma a carriera finita, fino alla Corte europea dei diritti umani che con una sentenza emanata solo nel 2023, dunque dopo tredici anni di battaglie giudiziarie, ha deciso di non decidere perdendo l’occasione di emettere un verdetto storico per il diritto all’identità personale e al genere.
Innanzi tutto la Corte, come direbbero gli inglesi, ha mischiato orange and apples.
Il caso di Semenya non riguardava gli atleti transgender, la cui partecipazione a gare con atleti appartenenti al sesso di “destinazione” pone problemi diversi rispetto a quelli in discussione. Questo ha alterato le basi della decisione che avrebbe dovuto, invece, esclusivamente riguardare un punto: è ammissibile che, in nome della “normalità”, un essere umano sia costretto —costretto — ad assumere farmaci che ne alterano il “funzionamento” fisiologico per poter gareggiare in un evento sportivo? O, se si vuole porre la questione dalla prospettiva di una federazione sportiva, è ammissibile che una federazione sportiva imponga a un atleta di compiere interventi sul proprio corpo che nemmeno un ordinamento statale (democratico) avrebbe il potere di fare?
Nell’ordinamento giuridico (italiano) la castrazione chimica come pena per la commissione di reati sessuali non è mai andata oltre il livello di una presa di posizione politica. E cosa diremmo se il Parlamento approvasse una legge in base alla quale chi è troppo intelligente deve essere instupidito con i farmaci?
Le risposte a queste domande sono abbastanza ovvie, ma nel mondo dello sport intervenire farmacologicamente sul corpo e sulla mente degli atleti è una prassi, anzi, una regola accettata.
Per capire la violenza di questa posizione, basta leggere quello che scrivono la Corte suprema svizzera e la Corte arbitrale per lo sport negli atti portati alla cognizione della Corte europea dei diritti umani nel caso Semenya: “CAS and the Federal Supreme Court had concluded that her characteristics were ‘not sufficiently female’ for the purposes of the sports classification” — ai fini sportivi, le sue caratteristiche “non erano sufficientemente femminili” e che sottoporsi a una terapia ormonale “depotenziante” ha degli effetti collaterali che, per loro natura “were no different from those experienced by the thousands, if not millions of other women with XX chromosomes who took oral contraceptives” — non sono differenti da quelli subiti dalle donne con cromosoma XX (e dunque “normali”?, nda) che assumono contraccettivi orali.
Chi non rabbrividisce di fronte a queste parole?
Sia come sia, l’elefantiaca sentenza della Corte europea (58.365 parole, quasi un libro) ha partorito il topolino: le regole procedurali della giustizia sportiva non garantiscono una effettiva possibilità procedurale di difendersi (paragrafo 200) e dunque non è necessario esaminare la questione più importante, quella, appunto, dell’ammissibilità di una regola sportiva che costringe, a pena di esclusione, a subire una violazione della propria integrità psicofisica (paragrafo 203).
In altri termini, con un capolavoro di equilibrismo, la Corte ha deciso di non decidere se le norme sportive che impongono un trattamento sanitario obbligatorio come condizione per gareggiare siano corrette o no perché è materia per la giustizia “ordinaria” che però non ha garantito un effettivo diritto di difesa. Tradotto: non è colpa nostra se le regole sportive e quelle dell’ordinamento svizzero non hanno consentito di difendersi, a prescindere dal fatto che le rivendicazioni fossero accettabili o meno, cosa della quale non intendiamo occuparci.
Inoltre, si legge nei paragrafi 215 e 216 della sentenza, non è abbastanza umiliante da meritare tutela giuridica rinunciare alla propria carriera per non subire il “trattamento” depotenziante.
Resistendo alla tentazione di stigmatizzare il comportamento della Corte, è chiaro che la vicenda umana di Kehlif e, prima di lei, di Chand, Semenya e delle atlete che si trovano in condizioni, secondo le regole sportive, di “non normalità” coinvolge, evidentemente, molti aspetti dato che riguarda il tema cruciale del rapporto fra identità biologica, personale e giuridica. Un tema che certamente non si esaurisce nelle questioni delle regole sportive, ma che, ancora una volta, impone di riflettere su quanto il corpo di chiunque, a prescindere da genere e identità, possa essere ancora considerato una barriera inviolabile da parte degli Stati e, a maggior ragione, da organismi privati il cui scopo primario è il profitto.
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