PC Professionale – dicembre 2004
Il tribunale di Catania raddoppia le responsabilità del provider
di Andrea Monti
Con la sentenza n. 2286/04 il tribunale civile di Catania si è pronunciato sulla delicata questione della responsabilità dell’internet provider per gli illeciti commessi tramite le sue strutture stabilendo che “il provider sarà responsabile dell’illecito posto in essere dall’utilizzatore allorché egli abbia piena consapevolezza (enfasi aggiunta, n.d.a.) del carattere antigiuridico dell’attività svolta da quest’ultimo. La responsabilità del provider si configura, quindi, alla stregua di una responsabilità soggettiva: colposa, allorché il fornitore del servizio, consapevole della presenza sul sito di materiale sospetto, si astenga dall’accertarne l’illiceità e, al tempo stesso, dal rimuoverlo; dolosa, quando egli sia consapevole anche della antigiuridicità della condotta dell’utente e, ancora una volta, ometta di intervenire”.
Questa decisione è una delle prime a occuparsi dello spinoso argomento da quando il DLGV 70/03 ha recepito in Italia la direttiva 31/00 sul commercio elettronico che appunto stabilisce, peraltro contradditoriamente, i criteri sulla base dei quali un Isp è da ritenersi giuridicamente responsabile di ciò che è veicolato dai servizi che offre.
In realtà né la direttiva, né il decreto legislativo che la recepisce distinguono la responsabilità civile (fonte di risarcimento del danno) da quella penale (che prevede la restrizione della libertà personale), limitandosi ad affermare delle generiche “posizioni di principio”.
Ed è proprio questo che provoca i maggiori problemi in fase di applicazione, come dimostra questa confusa sentenza. Non è per nulla chiaro, infatti, se, perché e quando, un Isp dovrebbe diventare responsabile di ciò che passa tramite i suoi sever (un approfondimento su www.alcei.it/documenti/ cs020619_it.htm).
Attenzione, questo è un punto essenziale: la legge, e la sentenza catanese che la applica, prevedono una responsabilità autonoma dell’internet provider, distinta e separata da quella dell’utente. In altri termini, se un utente viola la legge e il provider non interviene per bloccare l’azione illegale, l’Isp può essere citato in giudizio per la sua negligente inazione anche se non si trova l’utente che ha commesso l’illecito. Se, invece, l’Isp ha la piena consapevolezza della presenza di contenuti illeciti sui propri sistemi e non li rimuove, allora potrebbe rispondere sia come “complice” dell’utente, sia, autonomamente per non avere impedito la prosecuzione dell’illecito.
Questa, in sintesi, la decisione del giudice che, però, non sembra coerente con i fatti di causa. Leggendo la sentenza, infatti, si capisce che il caso riguardava l’abusiva pubblicazione on line di un’opera descrittiva di una cattedrale siciliana da parte di un content provider gestore di un sito collegato a un Comune, che aveva fatto ciò, risulta dagli atti, senza alcuna autorizzazione dell’autore.
La causa, dunque, ha coinvolto, da un lato, il titolare dei diritti d’autore sull’opera illecitamente riprodotta e, dall’altro, il provider che l’avrebbe indebitamente riutilizzata. Se le cose stanno così, allora, non si capisce la ragione di analizzare gli aspetti della responsabilità del provider alla luce della disciplina comunitaria.
La controversia giudiziaria riguardava, infatti, un’azione commessa direttamente dall’Isp, per il tramite di chi ha materialmente diretto la realizzazione del sito incriminato, e non un illecito commesso da un utente, magari ignoto. Quindi, tutti i riferimenti all’obbligo di rimozione, di verifica della “non antigiuridicità” dei contenuti e via discorrendo, sono semplicemente “off topic”.
Sia come sia, tornando al punto, questa scoordinata sentenza catanese traccia pur sempre un solco nel quale altre certamente si insinueranno. E per evitare di essere coinvolti per avere tollerato contenuti contestati, gli Isp potrebbero reagire prevedendo, nelle condizioni contrattuali a carico dell’utente, il diritto di oscurare o rimuovere cautelativamente il materiale controverso anche a fronte di semplici diffide, magari inviate via mail, costringendo l’utente a non chiedere i danni.
Oppure potrebbero inserire una clausola per la quale l’utente garantisce di farsi carico di tutte le somme che l’Isp dovesse essere costretto a versare a seguito della pubblicazione, da parte dell’utente, dei contenuti contestati.
Oppure ancora si potrebbe scrivere che… Per farla breve: l’elenco delle clausole con le quali un ISP si potrebbe “blindare” è abbastanza lungo, ma è certo che questo avverrebbe a spese letteralmente dell’utente in buona fede.
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