Da sempre Big Tech —come qualsiasi altro comparto industriale— promuove interlocuzioni istituzionali a vario livello per rappresentare ai legislatori le proprie istanze e intervenire su provvedimenti che mettono in pericolo i propri interessi. Consulenti di “relazioni istituzionali” —i lobbisti, in altri termini— passano il tempo a raccogliere informazioni su quanto accade nei palazzi del potere e, dall’altro lato, mettono a disposizione documenti, analisi tecniche e dati statistici che spesso i decisori non hanno i mezzi o le possibilità di ottenere, oppure sostengono eventi pubblici organizzati da soggetti istituzionali come forma di “civil engagement” e “social responsibility”. Da qualche tempo, però, l’attività di condizionamento delle scelte politiche ha iniziato ad estendersi anche all’interazione con la società civile —attivisti e associazioni per la difesa dei “diritti digitali”— e poi, da ultimo, direttamente alle persone o meglio, alla percezione che le persone hanno del concetto di diritto di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – Italian Tech La Repubblica
Questo ultimo passaggio è di fondamentale importanza perché Big Tech ha capito, prima e meglio del legislatore, che non conta quello che è scritto nella Gazzetta Ufficiale ma quello che le persone percepiscono essere un proprio diritto o (molto meno spesso) un dovere.
Un esempio paradigmatico è il diritto alla privacy, frettolosamente (ed erroneamente) equiparato alla protezione dei dati personali, il cui significato non è compreso dalle persone sulla base della conoscenza delle norme, ma è influenzato dalle strategie di comunicazione di Big Tech.
Molti ricorderanno gli enormi cartelloni pubblicitari della campagna internazionale di Apple che ritraevano un iPhone con il claim “Privacy. That’s iPhone”
e qualcuno, passeggiando lungo via Luisa di Savoia, a ridosso di Piazza del Popolo, avrà notato quello con lo slogan “Safari, un browser che protegge la tua privacy”,
mentre chi si fermava a guardare la Fontana del Nettuno a Piazza Navona, si sarà imbattuto, un po’ di tempo fa’, in cartellone analogo che reclamizzava negli stessi termini un Samsung Galaxy.
Il sottotesto è chiaro: cosa sia la privacy lo decidiamo noi, così come decidiamo noi se, come e quanto proteggerla.
Dunque, il contenuto di un diritto che dovrebbe essere stabilito tramite un dibattito pubblico mediato in Parlamento viene unilateralmente deciso, di fatto perché del diritto non si preoccupa nessuno, da aziende multinazionali extracomunitarie secondo le proprie necessità commerciali.
Questa appropriazione del contenuto valoriale di un diritto non è un fatto isolato ma una tendenza consolidata, come dimostrano la creazione del servizio Apple Relay, la scelta di opporre la tutela della privacy dei propri clienti alle richieste di cooperazione del FBI nell’indagine per la strage di S. Bernardino, e poi, più di recente, un paragrafo che appare nel messaggio di invito all’aggiornamento all’ultima versione di OS X, nel quale si legge testualmente (la traduzione non è ufficiale):
Privacy
– Possono essere attivati avvisi sui contenuti sensibili per evitare che gli utenti visualizzino inaspettatamente immagini inappropriate nei messaggi.
– Le protezioni della sicurezza delle comunicazioni per i bambini ora rilevano i video contenenti nudità, oltre alle foto condivise tramite Messaggi e il selezionatore di foto del sistema.
– I permessi di condivisione migliorati consentono di scegliere le foto da condividere e di aggiungere eventi del calendario senza fornire l’accesso all’intera collezione fotografica o al calendario.
È abbastanza chiaro agli operatori del diritto che alcune di queste funzionalità non hanno nulla a che vedere con la protezione della privacy, quale che sia il significato che vogliamo darle. Se, infatti, la possibilità di limitare la condivisione di informazioni e contenuti può rientrare nell’ambito del controllo sui propri dati (e come mai solo ora vengono protetti? verrebbe da chiedersi), le funzionalità di blocco automatico di determinati messaggi e contenuti hanno molto poco a che fare con la tutela dei casi propri, e molto di più con il client side scanning, cioè l’analisi preventiva dei contenuti di un device secondo parametri decisi da chi lo controlla (Apple) e non di chi lo usa (chi ha acquistato il costoso smartphone). Quindi, semmai, in un caso del genere il problema di privacy dovrebbe riguardare l’intrusività di Apple nella vita dell’utente, e poco importa che da Cupertino possano rispondere che hanno fatto in modo di non violare la sfera privata dell’individuo, perché si tratterebbe di una scelta autodeterminata e che potrebbe essere cambiata in qualsiasi momento.
Come risultato, l’utente viene lentamente, continuamente e progressivamente indotto a pensare che delegare a Big Tech il controllo su quello che si può e non si può dire sia una “questione di privacy” invece che di libertà di espressione. Sarà anche una citazione abusata, ma come si fa a non pensare al ribaltamento semantico dei concetti praticato dal Grande Fratello in 1984? In altri termini, evocando l’efficacissima metafora creata da Giancarlo Livraghi, gigante dell’advertising internazionale e uno dei padri nobili dell’internet italiana, “il rischio è che con la scusa di metterci il bavaglino, finiscano col metterci il bavaglio”.
Sia come sia, pragmaticamente, l’interesse di Big Tech a condizionare gli utenti prima ancora dei legislatori è molto sensato perché alla fine i primi sono anche elettori e, in una politica dominata da sondaggi e social shitstorm, gli elettori influiscono sulle scelte dei parlamentari con i loro conati addominali più che con l’espressione di opinioni meditate. Dall’altro lato, i parlamentari sono utenti e da utenti sono esposti ai messaggi e alle strategie di comunicazione adottate da chi ha venduto loro computer, smart device e servizi online di vario tipo, e sulla base di questi si formano dei convincimenti che poi condizionano, più o meno inconsciamente, le scelte assunte in qualità di rappresentanti istituzionali.
Dunque, con buona pace di Shakespeare, chi riesce a cambiare il nome di una rosa, acquisisce il potere di deciderne il profumo, che non necessariamente è altrettanto gradevole dell’originale. L’importante è che ci sia un accordo generalizzato sul fatto che di profumo si tratta, e non di altro, anche se non è vero. Perché la verità, come dice il funzionario del PCI nella scena finale di Cadaveri eccellenti (la trasposizione cinematografica di Francesco Rosi de Il Contesto, di Leonardo Sciascia), non è sempre rivoluzionaria.
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