Il mistero dell’Ipercubo ovvero la dittatura dell’ignoranza

Parlando di Scienza con dei ragazzi di terza media è venuto fuori l’argomento degli spazi geometrici multidimensionali e dei politopi.

Ne ho una conoscenza molto basilare – e annego nella matematica che li descrive – ma hanno una caratteristica interessante in senso generale: sono praticamente impossibili da descrivere compiutamente senza il ricorso a un linguaggio formalizzato non naturale.

In altri termini, il linguaggio atecnico, quello che utilizziamo normalmente per comunicare, non è sufficientemente potente per rappresentare concetti del genere.

Questo significa che ogni volta che si “semplificano” predicati appartenenti ad un certo contesto utilizzando parole, metafore e altri metodi retorici al posto dei termini tecnici, il messaggio che si ottiene è una versione imprecisa di quello originale.

La conseguenza è inserire una quantità di “rumore” nel “segnale” che aumenta – direi in modo più che proporzionale – all’aumentare della necessità di semplificare e alla (im)preprarazione del semplificatore.

Non è un problema che affligge solo la Scienza (pensate alle generalizzazioni indebite e infondate costruite sulle mal comprese implicazioni della meccanica quantisitica) perché anche il diritto ne è vittima e con una aggravante: quella di usare le parole “a caso”, facendo loro dire non quello che dicono ma quello che chi le pronuncia vorrebbe che dicessero.

Il caso più eclatante è senz’altro quello di “privacy” e “protezione dei dati personali”: concetti e norme diverse, oramai diventate sinonimi sulla base del sacro principio per il quale una bugia ripetuta abbastanza volte diventa verità.

La questione più generale da affrontare, dunque, è cosa vuol dire “semplificare”.

Provate a spiegare come funziona una partita di calcio senza utilizzare parole come “porta”, “attaccante”, “giocatore”, “palla”, “schema”, “zona”, “contrasto”, “goal”, “rigore” e via discorrendo. Si può certamente fare, ma con quali risultati? Viceversa, per un calciatore, un arbitro o un allenatore il significato di questi termini non presenta alcuna difficoltà di comprensione.

Fuor di metafora – ahimè, confesso di esserci caduto anch’io – questo significa che per gli esperti di un settore, gli esoterici, è perfettamente comprensibile ciò che agli essoterici non lo è.

Dunque, “semplificare” significa, in realtà, invertire il verso del vettore della conoscenza: non più dall’ignoranza verso la comprensione, ma dalla comprensione verso l’ignoranza.

E significa anche affermare la dittatura dell’ignoranza, che pretende di diventare il parametro sulla base del quale misurare la conoscenza.

Il fenomeno è osservabile un po’ ovunque, non solo nella fisica, ma anche nella incredibile questione dei vaccini o nel distorto ragionamento di chi, in nome della libertà di espressione, afferma il diritto alla coesistenza di verità contradditorie 1

E’ già grave che questo accada a livello di arrogante ignoranza individuale, ma è straordinariamente peggio quando sono le istituzioni stesse che elevano il rigetto del rigore tecnico a obbligo giuridico.

E’ quello che accade nella normativa sulla protezione dei dati personali, dove si impone a chi tratta informazioni relative a persone fisiche di informarle utilizzando termini “comprensibili” e non  l’astruso “legalese”. E’ una prescrizione intrinsecamente contraddittoria, perché il diritto – che fa del rigore terminologico un meccanismo essenziale dell’intero sistema – nega stesso.

Per un operatore del diritto il “legalese” non è affatto astruso: è un linguaggio preciso, tecnico, produttore di senso e conseguenze. Rinunciare al suo impiego significa perdere la capacità di interpretare e applicare le norme fino – asintoticamente – alla paralisi.

Dunque, non solo per capire degli ipercubi o della “privacy”, ciò che serve non è “semplificare”, ma aumentare la cultura individuale in modo che ciascuno possa finalmente comprendere ciò che – apparentemente – sembra astruso.

E a chi pensa di non avere tempo, basta rispondere di ridurre il tempo dedicato ad occuparsi di mala-scienza o a pubblicare cose del tutto inutili su Facebook, Whatsapp o Instagram.

 

 

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