Opporsi all’impiego di tecnologia per garantire la sicurezza perché qualcuno potrebbe abusarne equivale ad affermare di non avere fiducia nelle istituzioni di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato da Strategikon – un blog di Italian TechLe polemiche innescate dalla recente dichiarazione del ministro dell’interno sull’estensione dell’impiego del riconoscimento facciale risentono, ancora una volta, della confusione fra il livello normativo e quello politico, della narrativa distorta che si è stratificata nel corso degli anni attorno al feticcio della “privacy” e della scoperta, da parte dei non addetti ai lavori, di come è fatto —non da oggi— l’apparato di pubblica sicurezza italiano.
I poteri di pubblica sicurezza attengono innanzi tutto alla tutela della convivenza civile e dunque, indirettamente, alla sopravvivenza stessa dello Stato. In altri termini, garantire l’ordinato svolgimento delle attività quotidiane è il prerequisito per il mantenimento dell’ordine pubblico e dunque di quella che già nel Medio Evo i giuristi anglosassoni chiamavano peace of the land. Se queste parole suonano, eufemisticamente, alquanto retrò è perché in effetti lo sono: fanno riferimento, infatti, a un apparato di norme ancora basato sul Regio Decreto 18 giugno 1931, noto anche come “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” (al quale si affianca, ma è un altra questione, il “Testo unico delle leggi sanitarie”) molto modificato, mai abrogato.
In quanto afferente alla tutela dello Stato e —oggi, alla protezione dell’ordine costituzionale— la pubblica sicurezza è materia sottratta sia all’intervento della UE, sia a quello delle autorità indipendenti, e di quella per la protezione dei dati personali, in particolare. Ci sono delle norme che stabiliscono una qualche forma di coinvolgimento di quest’ultima negli aspetti più tecnico-informatici delle attività di polizia, ma è fuori discussione che il superiore interesse dello Stato e la tutela della collettività non possano essere globalmente limitati “in nome della privacy” perché esistono già dei meccanismi di tutela del cittadino in base ai quali le attività di pubblica sicurezza sono sottoposte al controllo giurisdizionale —alla magistratura, in altri termini— tutte le volte che si traducono in una potenziale limitazione dei diritti.
Nel caso specifico del riconoscimento facciale biometrico, poi, il suo impiego per finalità di pubblica sicurezza e indagini penali è già consentito dalla normativa vigente (nello specifico, dalla conversione del decreto legge 139/21) da quasi due anni. A questo andrebbe aggiunto anche il fatto che la Corte di cassazione è granitica nel rilevare che nei luoghi pubblici non sussiste una ragionevole aspettativa di privacy per cui non si configura il reato di interferenze illecite nella vita privata. Infine, come sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la pratica del diritto penale, i poteri di controllo anche preventivo delle autorità sono estremamente estesi e diffusi e se venissero esercitati in malafede, le uniche differenze con Paesi a democrazia variabile sarebbero il clima e l’architettura.
Quest’ultima considerazione ci porta al cuore del problema che non è giuridico ma politico: da un lato, la sicurezza si può garantire solo con la prevenzione e la prevenzione implica controllo diffuso, pervasivo ed efficiente. Dall’altro, la disponibilità di forme di controllo più estese ed efficaci generano nelle persone una reazione di istintivo rifiuto. Da qui le posizioni catastrofistiche in nome delle quali chissà cosa accadrebbe se lo Stato avesse la disponibilità di tutte le informazioni che ci riguardano, se potesse tracciare i nostri spostamenti, sapere cosa facciamo e con chi passiamo il tempo.
Il problema è, evidentemente, reale, ma gestirlo invocando un principio di precauzione in nome del quale determinate attività devono essere vietate a priori perché qualcuno potrebbe abusarne è una scelta semplicemente sbagliata. Con tutti i suoi problemi, il nostro sistema politico (e di riflesso quello giuridico) è sufficientemente robusto da non cedere a derive autoritarie e nel corso degli anni le forze di polizia hanno maturato una profonda consapevolezza democratica. Se non fosse così, avremmo già cambiato regime da tempo, senza bisogno di aspettare il riconoscimento facciale biometrico.
In altri termini, e su questo sfido apertamente gli zelanti “difensori della privacy”, opporsi all’impiego di tecnologia per garantire la sicurezza perché qualcuno potrebbe abusarne equivale ad affermare di non avere fiducia nelle istituzioni. Se così fosse, allora la inevitabile conseguenza logica di questa posizione sarebbe il dover entrare in clandestinità per rovesciare uno Stato che ha tradito gli ideali democratici. Chi ha il coraggio di fare un’affermazione del genere lanci il primo tweet.
Certamente, come detto, l’estensione del controllo diffuso resa possibile dalle tecnologie dell’informazione va gestita, ma più che proclami ideologici e alquanto passati —quantomeno dalla prospettiva di chi si occupa di questi argomenti da un po’— servirebbe potenziare gli strumenti a disposizione dei cittadini per rilevare e reagire ad eventuali errori nell’uso delle informazioni o per le deliberate violazioni dei diritti delle persone. Tradotto: serve potenziare il diritto di accesso ai dati detenuti per finalità di pubblica sicurezza e stabilire procedure veramente celeri per ottenere le risposte dalle autorità competenti.
La direttiva 680/16 recepita anche dall’Italia si occupa della questione e fornisce già degli strumenti per controllare, caso per caso, se una specifica attività di polizia connessa alla raccolta di dati e informazioni abbia superato o meno i confini fissati per legge. Non è perfetta e ci sono sicuramente margini di miglioramento, ma la norma che protegge le persone esiste e può essere già applicata.
Invece di lamentarsi di ipotetici abusi, dunque, si potrebbe contare il numero dei procedimenti attivati in nome della direttiva 680 che si sono conclusi con la prova di abusi da parte del potere esecutivo. Sarebbe un elemento empirico quanto si vuole, ma pur sempre concreto, per capire se e quanto saremmo in balìa di uno Stato spione e autoritario. Curiosamente, tuttavia, di questi provvedimenti non c’è traccia.
Può essere vero che, in nome del principio di precauzione, “assenza di prova non equivale a prova dell’assenza” e che dunque, da qualche parte, siano stati commessi abusi che non sono stati scoperti. Ma quando si parla di diritto, negativa non sunt probanda (la prova negativa non si può dare) e quindi, ad oggi, dobbiamo escludere che siano state commesse violazioni e prendere atto che il sistema, nel suo complesso, “tiene”.
Al contrario, applicare il principio di precauzione agli strumenti di regolazione dei rapporti sociali è un atto irrazionale che serve solo a provocare la paralisi di qualsiasi componente dello Stato e pregiudicare i diritti dei cittadini. La prova che sia possibile coniugare tecnologie di sorveglianza e tutele democratiche è stata fornita, durante la pandemia, dalle scelte della Corea del Sud. Il contact tracing è stato possibile grazie a un massiccio ricorso ai dati accumulati sui cittadini, ma non per questo il Paese ha subito arretramenti democratici. Questo non è certo accaduto per via del luogo comune che vuole gli “orientali” più “rispettosi delle regole”, ma per l’attitudine del governo alla trasparenza nelle scelte e nella loro applicazione.
La realtà, ma questo gli zelanti difensori della privacy rifiutano di ammetterlo, non è fatta di zeri e di uno ma di una serie infinita di valori intermedi, e il diritto non è deterministico né tantomeno scientifico. Come la politica è un fatto umano e come tale intrinsecamente fallibile e fallace. Ma nella sua debolezza è certamente preferibile alle certezze binarie di chi venera feticci e nuovi dei, in nome di convinzioni che hanno molto più a che fare con la fede che con la ragione.
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