Fino a che punto è lecito – se è lecito – “rubare” musica per consentire a chiunque di ascoltarla?
di Andrea Monti – Audioreview n. 395
Sullo scorso numero di Audioreview ho analizzato il fenomeno dei bootleg che, come si è visto, è molto più articolato di quanto possa sembrare. Ho distinto i bootleg realizzati accedendo abusivamente al mixer di una registrazione o procurandosi illegalmente, delle take originali dalle audience recording cioè dalle registrazioni fatte direttamente da chi partecipa a un concerto e che, contrariamente ai primi, non sono necessariamente illegali.
In questo numero approfondisco, invece, l’aspetto relativo ai bootleg realizzati con tracce “rubate”.
Una delle conseguenza della digitalizzazione dei processi di registrazione, mixaggio e mastering è il moltiplicarsi dei file “raw” cioè dei file “grezzi” sui quali poi si sviluppano le attività di post produzione.
Fino a quando la registrazione era solo su nastro era (relativamente) facile esercitare un controllo molto stretto sui risultati delle sessioni in studio. Ma è evidente che oggi non è più così perchè capita spesso – specie per quanto riguarda gli strumenti elettronici, elettrici o elettrificati – che il musicista registri da solo la propria parte e poi la metta a disposizione via cloud del sound engineer il quale, a sua volta, utilizza un sistema analogo per raccogliere e organizzare tutti i pezzi (passatemi il gioco di parole) che compongono il prodotto finito (ha ancora senso chiamarlo “disco” o “CD”?).
Se alla moltiplicazione delle “copie originali” di uno stesso file e della sua localizzazione aggiungiamo la scarsa attenzione alla sicurezza nell’uso degli strumenti elettronici e delle piattaforme online tipica di chi non ha particolare esperienza sul punto, otteniamo come risultato una maggiore facilità di azione per chi vuole impardonirsi di questo materiale.
Dunque, oltre alla “semplice” violazione del diritto d’autore, copiare abusivamente i file delle registrazioni accedendo senza autorizzazione a piattaforme cloud o a repository privati di artisti, produttori o studi di registrazione implica anche la commissione di almeno di un paio di reati previsti dal Codice penale: l’accesso abusivo a sistema telematico e l’utilizzo abusivo di codici di accesso (altresì noti come “password”). Si tratta di reati gravi, puniti in vario modo in ogni nazione occidentale, e che hanno conseguenze pesanti per chi viene riconosciuto colpevole di averli commessi.
Se, tuttavia, il comportamento di chi “ruba” musica non ancora pubblicata è giustamente sanzionato, non accade lo stesso per chi, trascurando di adottare comortamenti corretti e misure tecnologiche, non protegge adeguatamente gli “oggetti” in questione. In altri termini: non esiste una norma che impone ai titolari dei diritti d’autore (siano esse artisti, editori, o titolari dei diritti di sfruttamento economico) di proteggere adeguatamente le opere delle quali hanno la disponibilità.
Questo, ovviamente, non attenua la responsabilità di chi commette un atto illecito ma, come insegna il Codice civile, il danneggiato ha il dovere di non aggravare le conseguenze del danno e dunque non può gestirsi in modo superficiale e disattento, per poi lamentarsi dei danni subiti anche per via della sua negligenza.
In attesa, dunque che, a tutela innanzi tutto degli artisti, il legislatore emani una norma del genere, rimane da rispondere a una domanda più generale.
Come ripeto spesso, Mozart “rubò” il Miserere eseguito in Vaticano imparandolo a memoria e ritrascrivendolo. In questo modo regalò al mondo la possibilità di ascoltare un’opera che, fino a quel momento, era riservata a pochi privilegiati.
Se fosse vissuto oggi e avesse commesso oggi questo atto di libertà culturale lo avremmo mandato in galera?
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