di Andrea Monti – Nova Ilsole24ore La moltiplicazione degli illeciti commessi tramite servizi internet da utenti della rete sta provocando un pericoloso e inaccettabile spostamento dei criteri di attribuzione della responsabilità, a carico del fornitore di servizi di comunicazione elettronica (dall’accesso, alle piattaforme di e-commerce, a quelle di content delivery).
Tanto per fermarsi sulle cronache recenti, in Italia alcuni dirigenti di Google sono stati denunciati penalmente per non avere impedito la pubblicazione su Youtube di un video di abusi su un disabile, mentre in questi ultimi mesi, i tribunali di Bergamo e Milano stanno creando un “orientamento” per cui il sequestro di siti internet si fa bloccando i sistemi dei fornitori di accesso, invece che rivolgendosi agli effettivi titolari dei contenuti incriminati.
Eppure in termini strettamente giuridici il problema non si pone: in Europa, ciascuno risponde di quello che fa, e dunque anche gli utenti della rete sono gli unici responsabili delle loro azioni. A rinforzare questo concetto ci pensò fin dal 2000 direttiva europea 31/00 (recepita in Italia con il d.lgs. 70/2003), per la quale i fornitori di servizi internet non sono “sceriffi della rete”, pur avendo un preciso dovere di cooperazione con le autorità.
Ma nella pratica, questo è il nodo da sciogliere, non tutti gli internet provider sono uguali. Il discrimine posto dalla normativa europea per ottenere l’esenzione di responsabilità, infatti, è la neutralità del fornitore rispetto al comportamento degli utenti. In altri termini, se il provider non interviene su chi usa i suoi servizi, allora non è preventivamente “colpevole” se qualcuno vìola la legge (analogamente al gestore di un’autostrada, che non è di per sé colpevole del fatto che viene utilizzata anche da criminali). Ma se questo è evidente per i fornitori di accesso alla rete (i quali, al più, possono decidere di gestire in modo prioritario, ad esempio, i pacchetti VoIP rispetto a quelli di altri protocolli di rete), non è lo stesso perpiattaforme come facebook, ebay o youtube. Se costoro, di fatto, esercitassero un controllo sull’utilizzo che i loro utenti fanno del servizio erogato, si assumerebbero la responsabilità se qualcosa sfuggisse ai loro sistemi di verifica.
I maggiori player del settore hanno cercato di evitare la trappola ricorrendo a sofisticate operazioni di ingegneria contrattuale (per esempio, “scaricando” sugli utenti il compito di segnalare casi di abuso, o discretamente “impedendo” l’utilizzo dei loro sistemi in casi dubbi). Sta di fatto, però, che per quanto ci si possa nascondere dietro un contratto – forse anche di dubbio valore – chi rinuncia alla neutralità deve farsi carico di ciò che accade “su” o “tramite” le proprie piattaforme (una conclusione a cui arrivò già nel 1995 la Corte suprema dello Stato di New York, quando stabilì la responsabilità di Prodigy – all’epoca, un grosso provider di messaggistica – per non avere esercitato il potere che si era riservato per contratto di cancellare contenuti pubblicati dagli utenti in caso di violazione di legge).
Quanto sta accadendo contribuisce a riaprie il dibattito sulla network neutrality che, come si vede, non è soltanto una questione tecnologica: una rete neutra è una rete più rispettosa dei diritti di cittadini e imprese, perchè lascia alla magistratura il compito di applicare la legge, invece di popolare la rete di ronde e vigilantes.
Possibly Related Posts:
- Chi ci protegge dal dossieraggio tecnologico?
- Webscraping e Dataset AI: se il fine è di interesse pubblico non c’è violazione di copyright
- Perché Apple ha ritirato la causa contro la società israeliana dietro lo spyware Pegasus?
- Le sanzioni UE ad Apple e Google aprono un altro fronte nella guerra contro Big Tech (e incrinano quello interno)
- La rottura tra Stati e big tech non è mai stata così forte