Linux&C n.6
di Andrea Monti
Fin dal 1991 il Computer Freedom and Privacy (http://www.cfp.org) ha rappresentato il punto d’incontro annuale della electronic community americana, costituendo il tentativo di “mettere attorno ad un tavolo” forze dell’ordine e comunità hacker per discutere e spiegare i reciproci punti di vista.
Non si tratta soltanto di una conference tecnica, quindi, ma di un vero e proprio “laboratorio culturale” dove insieme al “meglio” dell’information technology americana, siedono giuristi, politici, associazioni per la tutela dei diritti civili, rappresentanti delle forze di polizia e del Governo.
Tradizionalmente, i dibattiti, che iniziano la mattina si protraggono durante il pranzo e finiscono la sera molto tardi, si svolgono senza “rete di protezione”. Il pubblico, a prescindere dall’importanza del relatore, è libero – anzi è stimolato – ad intervenire anche in modo molto critico (come ad esempio è accaduto in questa edizione, nel corso della relazione di un funzionario del FBI).
Quest anno il CFP2000 (http://www.cfp2000.org), intitolato Challenging the assumption (Rimettere in discussione i punti fermi), ha festeggiato il decennale e per la prima volta ha varcato i confini degli Stati Uniti, approdando sulle rive del lago Ontario a Toronto, in Canada.
Il “who’s who” della manifestazione è stato – come sempre – impressionante: tanto per fare solo qualche nome, durante i quattro giorni di convegno è stato possibile “imbattersi” in gente come Withfield Diffie (la “D” dell’algoritmo Diffie-Hellman), Mike Godwin (storico avvocato della Electronic Frontier Foundation), Neal Stephenson (basta la parola:)) e Tim O’Reilly (l’editore e alfiere della cultura Open Source).
Per la prima volta, poi, anche l’Italia ha avuto un piccolo spazio, grazie all’Associazione per la Libertà nella Comunicazione Eletronica Interattiva (http://www.alcei.it) che ha moderato una sessione parallela dal titolo Network Society as Seen by Two European Underdogs, insieme a Fronteras Electronica Espana. In un’altra sessione era anche previsto l’intervento dell’Ufficio del garante per i dati personali, che però ha dato forfait.
Come è facile intuire, per seguire tutti i lavori ci è voluto “un fisico bestiale” perché relazioni, interventi, e seminari si sono succeduti continuamente per ciascuna giornata, costringendo i partecipanti a sperimentare tecniche di onnipresenza o bilocazione.
Scherzi a parte, oltre a sessioni specificamente dedicate ai sempre più consistenti problemi di tutela della privacy nella network society (con tutto quello che ne segue in termini di crittografia, tutela dell’anonimato ecc.) anche le tematiche Open Source hanno ricevuto una grande attenzione.
In particolare, mi riferisco al notevole intervento di Tim O’Reilly, del quale parlerò fra poco, e alla “famosa” vicenda del cracking del DECSS (il sistema di protezione dei DVD), resosi necessario per poter vedere i Digital Versatile Disk anche in ambiente Linux.
Come saprete, le major dell’audiovisivo hanno accusato i programmatori che hanno realizzato l’hack in questione di avere violato segreti industriali e di avere commesso altri illeciti relativi al divieto di reverse engineering, intentando nei loro confronti delle pesanti azioni legali.
La critica degli intervenuti a questa “aggressione” nei confronti del free software è stata durissima. La vicenda DECSS – si è detto – ha evidenziato per l’ennesima volta quanto “forte” sia il tentativo di limitare la libertà di espressione impedendo il libero utilizzo della tecnologia. E’ infatti emerso molto chiaramente dai numerosi interventi sia tecnici, sia giuridici, come il modello alternativo di gestione del diritto d’autore proposto dall’idea di Open Source stia portando a galla i pericoli insiti nell’approccio “proprietario” alla gestione delle informazioni. Si, perché nel momento in cui impedisce la libera circolazione di idee e strumenti, e in particolare la libertà di sviluppare free software, paralizza l’evoluzione tecnologica e la concentra nelle mani di pochi soggetti. Che diventano a tutti gli effetti i “Signori dell’informazione”.
Ma la portata del concetto di Open Source va ben oltre queste – pur importanti – considerazioni “stallmaniane”. Non è soltanto una questione di GPL, di condivisione del codice e di libera distribuzione delle applicazioni, ma riguarda temi di portata molto più ampia come ha evidenziato chiaramente Tim O’Reilly, nel suo intervento. Che può essere sintetizzato nello slogan: dall’information wants to be Free all’information wants to be Open. La forza dell’internet – ha detto Tim O’Reilly – sta nella sua capacità di creare conversazione, e l’Open Source è il cuore di tutto questo In altri termini, i valori della trasparenza e della compatibilità trascendono gli aspetti tecnici e sono fisiologicamente connaturati alla network society, e perciò rappresentano un sostanziale premessa anche per lo sviluppo delle attività della new economy. Come dimostra, ad esempio, il caso di Amazon.com, il cui successo commerciale è proprio basato su un coinvolgimento attivo dei cliente, che diventano nello stesso tempo redattori e critici dei libri che acquistano. O, per fare un altro esempio, come nel caso delle numerose “bacheche” pubbliche dei gruppi che si occupano di trading on line, dove è possibile trovare un mare di informazioni liberamente consultabili.
Ma l’avvenire, continua O’Reilly, non è sereno: le major del software si stanno dando molto da fare per ostacolare la crescita di sistemi aperti. Da un lato hanno “scatenato” un esercito di avvocati esperti nel settore della proprietà intellettuale, appigliandosi – come dimostra il caso del DECSS (n.d.r.) – ad ogni minimo cavillo per bloccare la diffusione di tecnologie alternative. Dall’altro, stanno esercitando fortissime pressioni di lobby per ottenere leggi che rendano sempre più agevole la brevettabilità del software. Con la conseguenza che sarà sempre più difficile (se non impossibile) per gli sviluppatori di free software realizzare applicazioni aperte e compatibili. L’invito, dunque, è quello di non cullarsi nell’idea che l’internet sia soltanto un paradiso di “apertura” e democrazia, perché per molte imprese, che hanno forza e risorse, la rete è soltanto uno strumento per “fare soldi”. Bisogna convincersi, conclude O’Reilly, che abbiamo bisogno di guardare all’Open Source come la voce di qualcosa di nuovo che sta appena sbocciando, e che tutti dobbiamo impegnarci a proteggere
Molto altro ci sarebbe da dire sull’argomento, ma i limiti di spazio non consentono di andare oltre un bilancio della manifestazione che è sostanzialmente positivo. Si sono succeduti relatori di alto livello che hanno trattato argomenti interessanti in un’organizzazione impeccabile. Ma per altri versi il CFP2000 ha lasciato – almeno nel sottoscritto – una sensazione di “incompiutezza”.
Benchè le differenti posizioni fossero molto nette, contrariamente alle edizioni precedenti questa volta si è registrata una sorta di “dispersione” della vis polemica. Conseguenza probabilmente inevitabile, al crescere delle proporzioni e della rilevanza di un’iniziativa del genere che assume di anno in anno una veste sempre più istituzionale.
Un altro elemento sul quale pensare riguarda il ruolo,o meglio l’assenza, dell’Europa nello sviluppo delle posizioni culturali della network society.
Pur essendosi svolto fuori dai confini americani e non ostante la rilevante presenza di relatori e partecipanti non americani, il CFP ha conservato questa volta un’impronta fortemente statunitense.
Il risultato è un’attenzione praticamente nulla nei confronti di quello che accade al di qua dell’oceano. La cosa interessante è che questa disattenzione non mi sembra frutto di malafede o intenzionale “imperialismo culturale”.
Più semplicemente è il riflesso di uno stato di fatto: l’Europa non riesce (o non è in grado) di esprimere un cultura in queste materie, che non sia un’imitazione spesso scadente dei modelli americani.
Proprio prendendo atto di questa “deficienza” sarebbe stato auspicabile che le persone più “avanti” nella riflessione culturale e quindi dotate di una visione più ampia, si fossero fatte carico di “gettare un ponte” verso il Vecchio Continente, ma questo non è – per il momento – ancora avvenuto.
Poco male, c’è un anno di tempo per cercare di cambiare la situazione: l’appuntamento è per l’anno prossimo a Cambridge, Massachussets (per chi non se ne fosse accorto, dalle parti del MIT) e chissà che il primo CFP del nuovo millennio non ci porti qualche piacevole sorpresa “continentale”.
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