Da un paio di settimane alcuni internet provider russi stanno bloccando il funzionamento di Tor il protocollo che consente di accedere a risorse di rete con (ragionevoli) aspettative di sicurezza e confidenzialità. L’analisi condotta dagli attivisti che partecipano al progetto suggerisce che i blocchi non siano causati da problemi tecnici, ma dall’espansione del controllo regolamentare del governo russo sull’infrastruttura di rete e sulle risorse di numerazione di Andrea Monti – Originariamente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian TechLa Cina, dal canto suo, ha chiaramente manifestato preoccupazione per il fatto che il controllo sui numeri IP è sostanzialmente in mano statunitense e ha annunciato un progetto per migrare da Ipv4 a Ipv6 e di farlo in sostanziale autonomia in modo da attribuire il controllo sull’infrastruttura ai singoli Stati.
In modo diverso, ma convergente, le due potenze orientali hanno deciso di estendere il controllo sulle proprie infrastrutture anche alle componenti software. Una volta finalizzati, questi progetti consentiranno l’esercizio di reti di telecomunicazioni e la prestazione di servizi di comunicazione elettronica (inclusi, per capirci, intercettazioni, filtraggi e oscuramenti) anche nei confronti di Paesi stranieri.
Tuttavia, se Atene piange, Sparta non ride perché, pur in modo meno evidente, anche al di qua della Cortina di ferro la situazione è analoga.
In Occidente i DNS più utilizzati sono nelle mani di pochissimi soggetti che si sostituiscono agli Stati nel decidere chi ha diritto a cosa. La direttiva 1972/2018 (da poco recepita in Italia) estende i poteri degli esecutivi “in nome della sicurezza” e da due anni il Presidente del Consiglio ha, per legge, il potere di spegnere la rete italiana.
Questi eventi da soli possono sembrare privi di senso, ma se vengono collegati costituiscono un segnale molto chiaro del fatto che, se mai fosse realmente esistita, anche in Occidente la retorica della “internet libera e incontrollabile” ha perso significato.
In altri termini: quali che siano la latitudine (politica) alla quale vengono assunte certe decisioni e la differente sensibilità democratica del Paese coinvolto anche al di fuori delle cerchie degli addetti ai lavori si sta facendo strada la constatazione che chi controlla l’infrastruttura di trasporto e la definizione tecnica di standard e protocolli, governa il modo in cui funzionano applicazioni e piattaforme. Tradotto: controllare sia l’infrastruttura fisica, sia l’assegnazione degli IP e il funzionamento DNS significa controllare quello che dipende da loro: tutto, in altre parole.
Storicamente, l’Italia non si è mai realmente interessata a questi problemi tanto che a distanza di quasi trent’anni la gestione dei ccTLD .it è – incredibilmente – ancora fuori dal controllo diretto del Mise o dell’Agcom mentre sugli IP nemmeno “tocchiamo palla”. A questo dobbiamo aggiungere gli effetti del colonialismo tecnologico straniero sulla rete pubblica e sui (futuri) grandi data-centre per la pubblica amministrazione e la sostanziale incapacità di quest’ultima nell’affrontare razionalmente il tema dell’informatizzazione nazionale. Altri Paesi vivranno in condizioni tecnologiche migliori delle nostre, avranno servizi più efficienti e strutture più resilienti ma non è questo il punto. Anch’essi, infatti, devono confrontarsi con l’assenza di controllo diretto su ciò che fa funzionare la Big Internet e domandarsi – metaforicamente – che senso abbia costruire grattacieli su pilastri che possono cedere in qualsiasi momento.
Per essere concreti: criptovalute, NFT, streaming audio e video, libri, IoT, sicurezza e tutto il parafernalia del marketing tecnologico che ci viene chiesto di utilizzare as-a-service funziona fino a quando i padroni dei protocolli lo consentono.
Fino ad ora, il sistema di internet governance basato sul settore privato ha sostanzialmente “retto” ma i segnali più o meno forti che si cominciano a percepire lasciano intendere che questo modello di governo dovrà cambiare. Chi – come purtroppo probabilmente farà l’Italia – rimane fuori dalle scelte decisionali potrà soltanto subirle, con negative conseguenze politiche (in termini di ricadute sui diritti fondamentli) e strategiche (in termini di gestione degli investimenti per la transizione digitale) di portata non immaginabile.
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