Interlex n.ro 127
di Andrea Monti
Fra gli aspetti problematici generati dalla registrazione di un nome a dominio ce ne sono alcuni poco o nulla presi in considerazione dalla dottrina. Mi riferisco in modo particolare al cosiddetto “regime di circolazione” del nome a dominio, che a sua volta sottintende la corretta individuazione della sua titolarità. L’assetto attuale è organizzato in modo che il richiedente riceva in “uso” il nome prescelto, mentre la “proprietà” rimane della Registration Authority.
Se questa impostazione può “reggere” in riferimento ai nomi generici, presenta invece qualche debolezza quando si passa ai segni distintivi e ai nomi propri. In estrema sintesi, questi sono i termini del problema: Il titolare di un segno distintivo ha il diritto di “spenderlo” senza alcuna limitazione (nell’ambito delle categorie merceologiche e degli impieghi prescelti). Dunque egli è libero di apporre il marchio su confezioni, prodotti, pubblicità varie. Ma quando si passa all’internet, curiosamente, questo soggetto subisce una compressione del proprio diritto, dato che ciò che era “suo” (il diritto di “spendere” il marchio), con l’atto della registrazione del nome a dominio si trasforma in un qualcosa appartenente a terzi, e quindi soltanto da “usare”.
In altri termini, l’assegnazione di un nome a dominio sembrerebbe provocare un automatico trasferimento in capo alla RA del diritto esclusivo di usare un segno distintivo sull’internet sotto forma di indirizzo (web, e-mail e quant’altro). Facciamo un esempio pratico: la Coca-Cola detiene tutti i diritti sull’omonimo marchio che quindi controlla in senso assoluto. Nel momento in cui richiede l’assegnazione del nome a dominio, di fatto cede automaticamente alla RA di turno una parte del proprio diritto, senza avere più alcuna voce in capitolo, il che, ammetterete, è una conclusione difficilmente condivisibile.
Un altro ambito problematico derivante dall’attuale sistema di assegnazione, riguarda la possibilità di sottoporre ad esecuzione (mobiliare, presumo) un nome a dominio. Che questo abbia (o acquisti) un valore economico è fuori discussione. Come è fuori discussione che dovrebbe entrare a pieno titolo nel patrimonio dell’assegnatario e quindi, in ipotesi, concorrere a formare la “massa” da mettere a disposizione degli eventuali creditori. Ma se il dominio viene assegnato in uso (e posto che possa essere considerato un “bene” in senso giuridico) è evidente che non potrebbe essere espropriato coattivamente all’assegnatario, in quanto questi non ne sarebbe proprietario.
La conclusione è che sarebbe necessario stabilire, magari per legge, che l’”espropriazione” dei nomi a dominio si concreti stabilendo un “diritto di subentro” in capo al creditore.
Un totale cambio di prospettiva, potrebbe invece essere quello di non considerare il nome a dominio “in sé”, ma di pensare alla registrazione del dominio come un vero e proprio “servizio”. Cosa che peraltro risponde alla realtà operativa, atteso che la RA offre al richiedente la semplice possibilità di determinare il contenuto di un campo del database. In altri termini, ciò significa che il rapporto fra richiedente e RA non avrebbe nulla a che vedere con la cessione di diritti sui marchi o con altre fattispecie giuridiche.
Ma si configurerebbe appunto come una semplice “messa a disposizione” di una infrastruttura tecnica, il database dei nomi a dominio, senza che questo possa incidere sulla titolarità dei segni distintivi o su altri diritti altrui. In altri termini, non si realizzerebbe alcuna limitazione delle situazioni giuridiche soggettive preesistenti in capo all’assegnatario.
Questa soluzione, oltre ad essere coerente, ha inoltre il pregio di dimostrare, ancora una volta, che non c’è bisogno di una legge ad hoc per regolamentare un semplice elemento tecnico.
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