Nella causa Murthy, Surgeon General, et al. contro Missouri, et al. decisa lo scorso 26 giugno 2024, la Corte suprema USA ha affrontato la questione se l’esecutivo statunitense abbia violato il Primo Emendamento della Costituzione americana esercitando pressioni sulle piattaforme di social media perché censurassero dei post ritenuti fonte di disinformazione di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su Wired.it
I fatti di causa risalgono ai tempi della pandemia quando, per contrastare l’ondata di fake news, i grandi social network selezionavano e bloccavano contenuti immessi dagli utenti, con particolare riferimento a quelli relativi al COVID-19 e alle elezioni del 2020. Da qui, la causa promossa da due Stati e cinque utenti di social che hanno portato in giudizio il governo accusandolo di avere costretto le piattaforme a limitare indebitamente il proprio diritto alla libertà di parola.
La Corte, anche se solo a maggioranza, non è entrata nel merito della vicenda e ha evitato di decidere su un tema particolarmente serio, trincerandosi dietro aspetti preliminari che riguardavano l’inesistenza del diritto delle parti a far causa al governo.
La maggioranza dei giudici, infatti, ha ritenuto che per poter agire i cittadini avrebbero dovuto dimostrare di correre un pericolo concreto e attuale di non potersi esprimere liberamente per via delle pressioni esercitate dall’esecutivo sui social network interessati. Questa prova, invece, non è stata data e, anzi, dal processo è emerso che le piattaforme spesso rimuovevano contenuti in autonomia e in base ai propri termini contrattuali senza bisogno di cedere alle pressioni governative.
Inoltre, continuano i magistrati, non c’è prova che l’intervento degli uffici pubblici abbia causato danni diretti alle parti e, infine, anche se le azioni del governo hanno inizialmente influenzato le scelte censorie delle piattaforme, queste ultime hanno continuato ad applicarle in modo indipendente. Dunque, anche se il governo venisse riconosciuto responsabile, questo non cambierebbe in automatico il modo in cui le piattaforme intervengono sui contenuti generati dagli utenti.
In termini puramente formali, questa (non)decisione è —probabilmente— corretta, tuttavia essa è anche la prova provata di quanto il diritto di decidere come debba essere esercitato un diritto risieda sempre di più, da un lato, nelle mani di soggetti privati (Big Tech) e, dall’altro, in quelle del potere esecutivo e non più di quello giudiziario.
L’utente si trova stretto in una morsa dalla quale non ha la possibilità di liberarsi: le procedure di revisione dei takedown da parte delle piattaforme sono sostanzialmente discrezionali, mentre un “suggerimento” o una “richiesta ufficiosa” di un funzionario non sono atti formali che devono essere comunicati all’interessato e che possono essere impugnati in tribunale. Tutto avviene in un limbo, dove non è possibile sapere “chi” ha ordinato oppure fatto “cosa” in nome di quale principio o per conto di quale organo istituzionale. Ma soprattutto, non è dato sapere se, e se si in che misura, tutto questo sia stato fatto selezionando i contenuti da mettere all’indice con sistemi automatizzati più o meno artificialmente stupidi.
La situazione non è molto diversa nell’Unione Europea, dove il regolamento sui servizi digitali (impropriamente chiamato Digital Service Act) delega alle grandi piattaforme ampi poteri di intervento sugli utenti e attribuisce a non meglio precisati “trusted flagger” —segnalatori (o meglio, delatori) fidati e privati— il compito di segnalare l’esistenza di contenuti illegali, senza che un giudice sia stato minimamente coinvolto nel procedimento.
Ora, è vero che, pragmaticamente, la quantità di contenuti che circola online è talmente enorme che nessun Paese può avere un’autorità giudiziaria così numerosa da poter gestire tutti i casi che si presentano. È anche vero, sempre in nome del pragmatismo, che una qualche soluzione concreta si deve pur trovare. E potrebbe essere plausibile che non ci siano alternative alle soluzioni praticate in USA o adottate dalla UE.
Ma se tutto questo è vero, allora dobbiamo anche essere consapevoli del prezzo che, come cittadini, stiamo pagando in termini di rinuncia alla tutela che lo Stato ci dovrebbe garantire anche e soprattutto quando siamo dalla “parte sbagliata”, quella di chi ha violato la legge, e che dovrebbe essere giudicato in contraddittorio e con un difensore.
Per quanto grave, dunque, la limitazione della libertà di espressione non è l’aspetto peggiore della vicenda che ha originato la decisione della Corte suprema e ha spinto la UE a emanare il regolamento sui servizi digitali, perché ancora prima del free speech sono compromessi l’intero sistema dei diritti e la forza di chi, lo Stato, dovrebbe tutelarli nell’interesse di tutti.
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