di Andrea Monti – PC Professionale n. 216 marzo 2009
L’accordo su Google Books apre nuove opportunità per l’e-commerce e dimostra l’inadeguatezza della normativa italiana
Nel gennaio 2009 Google ha raggiunto un accordo con i promotori di una class action (una sorta di “causa collettiva” che si promuove contro, tipicamente, una grande azienda) attivata da autori ed editori per la (asserita) violazione dei loro diritti d’autore. Sulla base dell’accordo, Google creerà un fondo di quasi quaranta milioni di Dollari, a disposizione dei titolari dei diritti. Oggetto della vertenza giudiziaria è Google Books, il servizio lanciato nel 2004 e basato sulla digitalizzazione di libri, poi messi a disposizione dei potenziali acquirenti che possono leggere qualche stralcio prima di comprarli. Immancabile, come in tutti i servizi che arrivano da Mountain View, è la presenza di pubblicità (più o meno) parametrata sul tipo di libro che il navigatore sta consultando e che compare sulle pagine servite da Google Books.
Dunque, da un lato gli autori lamentano un utilizzo commerciale abusivo da parte di Google che, dall’altro, si difende eccependo di essersi comportato nel rispetto del principio del “fair use”, che consente un impiego limitato delle opere protette senza dover pagare royalty. Ora, è vero che la legge americana prevede il “fair use”, ma è anche vero che per far funzionare Google Books è stato necessario acquisire interi volumi e non qualche pagina-campione.
In questi termini, l’uso delle opere protette non sarebbe stato del tutto “fair”, visto che così facendo Google ha creato una vera e propria biblioteca digitale senza avere pagato il dovuto ai titolari dei diritti. Ma piuttosto che imbarcarsi in una controversia lunga e incerta, entrambe le parti hanno pragmaticamente scelto di trovare un accordo che ferma la lite giudiziaria e consente al progetto di andare avanti.
Al di la degli aspetti strettamente legati alla controversia legale, questo caso è veramente emblematico di come il diritto possa frenare o promuovere l’innovazione e l’impresa. Google Books è innanzi tutto un enorme progetto tecnologico che, grazie all’integrazione fra rete e potenza di calcolo consente di utilizzare commercialmente opere protette (i libri) in modo mai visto prima. In particolare, realizza la fusione di tutela del consumatore, promozione culturale e servizi di e-commerce a valore aggiunto, in un modello in cui ciascuno – titolare dei diritti, utente, gestore della piattaforma – guadagna qualcosa. Se è tutto perfetto, dove sono allora i problemi? Intanto, potremmo discutere degli annosi problemi di profilazione dei navigatori che accedono al servizio (ma è un altro argomento).
Ma per quello che ci interessa, venendo all’aspetto specifico del diritto d’autore, è interessante riflettere sul ruolo che il copyright ha avuto in questa vicenda. In un momento in cui l’uso illecito del file sharing faceva sembrare difficile il trovare metodi efficaci per gestire i diritti d’autore online, Google Books è la prova che l’ICT ha ancora molto da dire sull’argomento. Il problema, semmai, è la rigidità della legge sul diritto d’autore che non è concepita per adattarsi alle nuove opportunità e ai nuovi mercati aperti dall’innovazione tecnologica.
Se la vicenda GoogleBooks fosse accaduta in Italia, infatti, la transazione di cui parla questo articolo non sarebbe stata possibile perchè le violazioni in materia di copyright obbligano il pubblico ministero ad aprire un procedimento penale che deve concludersi necessariamente con il processo. Il risultato pratico sarebbe stato che i titolari dei diritti non avrebbero percepito, almeno nell’immediato, neanche un centesimo e un progetto innovativo non avrebbe mai visto la luce, con tutte le conseguenze negative in termini anche di creazione di attività indotte. Viceversa, la legge americana è strutturata in modo molto flessibile e consente alle parti di agire sul versante giudiziario, sia su quello di un accordo al di fuori del processo senza necessariamente richiedere l’apertura di un procedimento penale.
Questo ha consentito ai protagonisti della storia di concentrarsi sulla sostanza dei reciproci interessi, invece di imbarcarsi in lunghe, costose e incerte azioni giudiziarie. Certo, Google avrà anche forzato la mano nell’interpretare in un certo modo la normativa sul diritto d’autore, ma grazie a un sistema giudiziario intelligente, ha potuto mantenere in piedi un progetto la cui caratteristica, non va dimenticato, è di fare business sostenendo la circolazione dei libri. Sarebbe estremamente utile se il neonato Comitato antipirateria della Presidenza del Consiglio, a cui spetta proporre le riforme alla legge sul diritto d’autore, prendesse spunto dal caso Google Books per progettare delle modifiche orientate a favorire la circolazione delle opere dell’ingegno, abbandonando un atteggiamento inutilmente persecutorio.
L’esperienza ha infatti dimostrato che di fronte a comportamenti di massa resi possibili dalla tecnologia non c’è legge che tenga. Dunque le risposte in termini di tutela dei diritti saranno molto più efficaci nella misura in cui arrivano da nuovi modelli commerciali. E’ evidente, senza nascondersi dietro a un dito, che nella travagliata vicenda del copyright si fronteggiano due atteggiamenti culturali: uno, antico, basato sulla repressione cieca e sulla tecnofobia; l’altro, pragmatico e al passo con i tempi, che cerca di aprire nuove strade.
Se prevalesse il primo dei due, la conseguenza sarebbe di dover adattare a posteriori l’evoluzione tecnologica a posizioni di retroguardia. Se, al contrario, prendesse piede il volto progressista del copyright, la legge potrebbe finalmente diventare una rampa di lancio per l’ecommerce della proprietà intellettuale, invece di esserne la zavorra.
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