La crisi ucraina ha evidenziato le difficoltà del ricorso al diritto come strumento risoluzione delle dispute internazionali. È urgente uscire dal guado dei “diritti senza Stato”. Il commento di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law nel corso di laurea in Digital Marketing dell’Università di Chieti-Pescara
Gli stateless right sono quei diritti che sono stabiliti sulla base di dichiarazioni politiche (come la Dichiarazione universale dei diritti umani) o di trattati (come il Trattato di Roma sulla corte penale internazionale). Non sono il precipitato della negoziazione politica fra diverse constituency di uno Stato sovrano — e dunque dell’esercizio del potere legislativo — ma il frutto di un accordo politico che prescinde dalla volontà popolare pur mediata dal sistema della democrazia rappresentativa. Il diritto perde, così, la sua funzione primaria perché non è più collegato ai valori del gruppo sociale che lo esprime, ma si trasforma in un insieme di regole imposte dal vertice che governa, così, tramite la legge —rule by law. Si tratta di un processo probabilmente inevitabile, frutto dei cambiamenti irreversibili innescati dalla globalizzazione, ma che con la crisi di quest’ultima richiede di essere “ripensato”.
Sovranità e diritto
Da una prospettiva strettamente post-westfaliana, decidere cosa sia “diritto” dipende dalla sovranità. Non può esistere un diritto senza Stato, così come non può esistere una moneta senza Stato oppure un esercito senza Stato. In altri, e più sintetici, termini, la sovranità è la base sulla quale si costruisce un gruppo sociale e se ne regola il funzionamento. Da qui, la necessità di utilizzare il diritto come strumento di mediazione fra istanze contrapposte che trovano una sintesi nella norma (potere legislativo), nella sua applicazione (potere esecutivo) e nel suo adattamento alle mutate condizioni di un determinato periodo storico (potere giudiziario). Le sentenze della Corte costituzionale sulla definizione dei concetti di ordine e sicurezza pubblica sono la migliore esemplificazione di questa dialettica, quando lasciano, appunto, alla giurisprudenza, la funzione di “sonda” dei cambiamenti nel corpo sociale.
Diritto senza sovranità
Gli scenari politico-economici delineati all’indomani della Seconda Guerra e le necessità di gestire le relazioni internazionali hanno progressivamente de-sovranizzato il diritto o, meglio, hanno scisso la sovranità dall’esercizio delle prerogative che le sono (state) proprie. Trattati e convenzioni — incluse quelli sui diritti — sono diventati gli strumenti tramite i quali gestire opposti interessi nazionali o perseguire obiettivi politici nei confronti di altri Paesi. Non si sono mai acquietate le polemiche sulla natura “imperialista” della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo o sull’uso della Carta di Nizza come strumento per imporre il rispetto di un insieme di diritti a Paesi che, violandoli, potevano competere più aggressivamente rispetto a quelli virtuosi.
La creazione di una valuta senza Stato come l’Euro, o il progetto di costruire una difesa comune di un non-Stato come l’Unione Europea sono ulteriori dimostrazioni di quanto il concetto di sovranità post-westfaliana sia sempre meno adatto a gestire la complessità (della fine) di un mondo globalizzato. È chiaro che i processi storici non procedono in modo lineare e senza interruzioni e che la creazione di un nuovo ordine mondiale che veda la Ue nel ruolo che le spetterebbe richiederà decenni se non secoli. Tuttavia, proprio il modo di procedere basato sul caos, sull’imprevedibilità e sulla permanenza degli interessi nazionali evidenzia la crisi del diritto come strumento di gestione dei rapporti fra nazioni.
La crisi dello strumento giuridico nelle relazioni internazionali
La crisi ucraina fornisce evidenze che supportano questa conclusione.
Le questioni giuridiche delle quali si discute hanno un impatto diretto sulle scelte strategiche e tattiche dei decisori sia nell’immediato, sia nella progettazione del “dopo”. Tuttavia, la scelta di “fare la guerra senza fare la guerra” ha delle conseguenze paradossali ma rilevanti, come dimostrano alcuni esempi in ordine sparso:
- il dibattito sulla fornitura di armi all’Ucraina ricade nell’ambito degli Alabama Claims; dunque se la Russia venisse formalmente dichiarata “vincitrice”, avrebbe titolo per invocare il risarcimento dei danni subiti dal supporto militare che determinati Paesi hanno fornito alla “sconfitta”;
- la possibilità di processare il presidente russo Putin è condizionata dalla non operatività generale delle norme sulle corti penali e di guerra mentre rimarrebbe nella potestà del diritto nazionale (ucraino, in questo caso). Se, dunque, non è possibile istituire un tribunale speciale o aprire un procedimento davanti alla Corte dell’Aja, un pubblico ministero ucraino ben potrebbe processare, anche in contumacia, i responsabili degli eccidi;
- se il mancato pagamento delle forniture di gas nella valuta richiesta da Mosca costituisca un inadempimento che giustifica il blocco dell’erogazione è materia per controversie ed arbitrati di diritto commerciale internazionale;
- la chiamata alle armi da parte del governo ucraino per reclutare esperti di informatica per attaccare le infrastrutture tecnologiche russe ricade nella normativa che sanziona i foreign fighter sia penalmente, sia dal punto di vista della prevenzione speciale di pubblica sicurezza. Inoltre, azioni del genere, costituiscono reato dal momento che non sono commesse nell’ambito di attività belliche a difesa della Repubblica italiana.
Il filo rosso che lega queste e altre situazioni è proprio, ancora una volta, fatto di diritto. L’assenza di una dichiarazione formale di guerra nei confronti della Russia nelle forme previste dal diritto bellico fa sì che continuino ad applicarsi le norme ordinarie e dunque il diritto dei trattati, la giurisprudenza arbitrale, il diritto penale e tutto il resto.
La natura paradossale di questa conclusione è sotto gli occhi di tutti: è difficile pensare che in una condizione come quella attuale si possano attivare rimedi giuridici per risolvere questioni che, invece, sono evidentemente politiche.
Conclusioni
Le necessità economiche indotte dai processi di globalizzazione hanno cambiato la natura e la funzione del diritto. Da attributo della sovranità popolare delegata al parlamento, il diritto diventa strumento di politiche sovranazionali.
Lo scollegamento del diritto con lo zeitgeist dei singoli Paesi ha reso necessaria la creazione di stateless rights —diritti creati sulla base di negoziazioni fra Stati, non da esigenze collettive — per gestire e giustificare il perseguimento degli interessi nazionali.
Questa necessità ha sancito il passaggio dal rule of law al rule by law e ha creato una condizione di law as exception nella quale il mancato rispetto della formalità normativa è considerato un danno collaterale accettabile nel perseguimento degli interessi nazionali o di coalizione.
La fine della certezza del diritto nelle relazioni internazionali avrà delle conseguenze che non è ancora possibile individuare. Di certo, la perdita di assolutezza del principio pacta sunt servanda rimette al centro della scena il ruolo della machtpolitik come unico parametro dei rapporti fra nazioni.
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