di Andrea Monti – PC Professionale n. 241 – Aprile 2011
I collegamenti di massa lanciati contro siti di istituzioni e imprese italiane dal sedicente gruppo Anonymous sono illegali? Il difficile contrasto fra diritto di manifestare e rispetto della legge
L’attacco subito dal sito di Finmeccanica lo scorso 3 marzo 2011 – come quelli precedenti a danno dei siti di Camera, Senato e presidenza del consiglio – è stato rivendicato da un gruppo di sedicenti attivisti autonominatisi “Anonymous”, che già si erano distinti per azioni analoghe a “supporto” di Wikileaks.
Con un riflesso condizionato inciso a fuoco nel sistema nervoso dei giornalisti, la notizia è stata riportata sui mezzi di informazione utilizzando un cliché sbagliato e fuori dal tempo: sono stati gli “hacker”. Il che ha poi dato la possibilità ai soliti “venditori di insicurezza” per rincarare la dose e presentarsi come i “salvatori della patria” quando dalle colonne di questo o quel giornale spiegano (poco) i problemi e (molto) le soluzioni.
Basta avere un minimo di conoscenze tecniche e storiche per sapere che Anonymous con l’hacking c’entra poco o nulla. Certo, non si può escludere che qualcuno dei componenti di questo gruppo abbia conoscenze più sofisticate del semplice utente. Ma questo non trasforma un gruppo di “attivisti” pseudopolitici in hacker. La passione di scoprire come funzionano le cose non ha nulla a che vedere con un (rispettabilissimo) uso politico dell’internet. E non è manco lontana parente di attacchi illegali resi possibili da un software (LOIC) utilizzabile da chiunque e che solo superficialmente possono essere considerati come espressione di un legittimo dissenso.
In realtà, come ha scritto The Economist in un lucidissimo articolo pubblicato il 16 dicembre 2010,
in una società libera, il fondamento etico della pacifica violazione della legge deve essere la consapevolezza dell’individuo di subire le conseguenze del proprio gesto, difendendosi davanti ai giudici e combattendo per cambiare una legge. I manifestanti, quindi, meritano protezione solo se sono identificabili … i manifestanti nel ciberspazio, al contrario, sono di solito anonimi e non rintracciabili. La natura furtiva e senza autori degli attacchi DDOS non li rende meritevoli di protezione: gli ignoti autori di questi attacchi sono piuttosto degli ultras codardi, altro che eroi. Questo vale anche per coloro che attaccano Wikileaks – un argomento che quei politici americani che invocano rappresaglie contro Julian Assange dovrebbero tenere ben presente. Squadracce e vigilante, online e offline, nella migliore delle ipotesi “esportano” soltanto giustizia sommaria.
Ecco perchè è inaccettabile la tesi di chi sostiene che azioni del genere sono da tollerare perché equivalenti a manifestazioni pubbliche. La legge, infatti, vieta di circolare mascherati o comunque non riconoscibili e ciò vale, a maggior ragione, per le manifestazioni dove si radunano gruppi anche numerosissimi di persone. Anche l’intasamento di strade e piazze è preso in considerazione dal legislatore italiano che prevede un reato specifico, il blocco stradale, a carico di chi ostacola senza giustificato motivo la libera fruibilità delle strade. E’ utile ricordare – per inciso – che questa norma è stata usata per punire i partecipanti a manifestazioni sindacali e di protesta, ma che condanne e assoluzioni seguite ai fatti sono state possibili, appunto, solo grazie al presupposto che tutte le parti erano identificabili.
Ma esistono regole analoghe per quanto riguarda l’internet? Non esplicitamente, nel senso che il reato di blocco stradale non è applicabile per analogia ai denial-of-service politicamente motivati. Esistono però altre norme, come il danneggiamento informatico, che sono pienamente applicabili ad azioni come quelle di Anonymous. Questo articolo del codice penale, infatti, punisce chiunque renda anche parzialmente non utilizzabili sistemi IT, dati e programmi. Inoltre, se gli attacchi riguardano impianti di pubblica utilità ci sono altre norme che entrano in gioco. Infine, essendo le azioni pianificate e portate a termine da gruppi organizzati di persone che condividono lo stesso obiettivo, si può anche parlare di associazione a delinquere.
Per difendersi da queste accuse non basta rivendicare il diritto di critica e quello di manifestare contro il governo (qualunque esso sia), perchè come abbiamo visto una motivazione del genere non giustifica azioni clandestine o commesse da soggetti (virtualmente) mascherati. Sarebbe necessario infatti dimostrare che il manifestare senza nascondersi metterebbe a rischio la vita o altri diritti fondamentali dell’attivista.
Ma visto che l’Italia non è un paese a rischio democratico, questo argomento non funziona e dunque la situazione ricade nella lucida analisi di The Economist di cui sopra.
Il problema serio di azioni come quelle di Anonymous – e di altre analoghe, come quelle di The Pirate Bay, per esempio – è che consentono al potere di distorcere l’attenzione dai problemi veri, e nello stesso tempo di far passare leggi repressive e censorie a danno di tutti quelli – e sono evidentemente la maggioranza – che nulla hanno a che vedere con l’Anonymous di turno. Il tutto reso straordinariamente più facile dall’evocazione del “fantasma hacker”, una figura mitologica che, ancora oggi, è estremamente utile per spargere paura a piene mani.
Possibly Related Posts:
- Chi ci protegge dal dossieraggio tecnologico?
- Webscraping e Dataset AI: se il fine è di interesse pubblico non c’è violazione di copyright
- Perché Apple ha ritirato la causa contro la società israeliana dietro lo spyware Pegasus?
- Le sanzioni UE ad Apple e Google aprono un altro fronte nella guerra contro Big Tech (e incrinano quello interno)
- La rottura tra Stati e big tech non è mai stata così forte