«Giusto distinguere tra hobby e lucro» Un’intervista su “La Stampa” – 14/7/2000
di A. Gaino
Copyright – La Stampa 14 luglio 2000
Andrea Monti, avvocato pescarese, è considerato un piccolo guru nella difesa degli hacker. Un po’ perché, ai tempi dell’Università, cliccava con l’abilità di un pirata e molto per aver avuto l’intuizione, dopo essere diventato avvocato, di applicare la passione giovanile per il computer al proprio lavoro. E così Monti è divenuto uno dei primi legali specializzati nei reati informatici. Fama amplificata dalle ormai numerose pubblicazioni firmate dal legale sull’argomento. All’esperto abbiamo chiesto se la sentenza del giudice Scialabba rappresenti una novità.
Avvocato, il suo è chiaramente il punto di vista del difensore, opposto a quello di un’associazione come la Business Software Alliance che tutela gli interessi delle software houses. Ci interessa capire se c’è una giurisprudenza consolidata rispetto a questi reati.
«Ci sono ormai 5-6 sentenze pronuciate dal 1996 in poi che vanno nella stessa direzione. A partire da quella del pretore di Cagliari per cui il reato di duplicazione abusiva, il 171 bis della legge 633/1941 sul diritto d’autore, scatta solo se c’è commercio del materiale riprodotto. Quella sentenza distingue lo scopo di lucro da quello di profitto, inteso anche come forma di risparmio sull’acquisto di programmi. Un successivo pronunciamento del pretore di Bologna, del 1998, rivede quest’ultimo principio ma nell’ambito di un’attività produttiva, stabilendo che il reato c’è se il programma duplicato è pertinente al tipo di lavoro svolto da chi ne è in possesso».
Intanto, la Bsa e le altre associazioni anti-pirateria informatica denunciano ad ogni convegno danni sempre più ingenti per le aziende del settore e l’inerzia del legislatore italiano. Non per nulla il nuovo diritto d’autore è fermo al palo in Parlamento da almeno sei anni.
«Quelli del Bsa non si rassegnano al principio che la violazione del diritto d’autore è e deve essere un problema di risarcimento in sede civile. Ciò che si discute è che sia o meno il giudice penale ad esserne investito. La realtà vera dei nostri processi per questi fatti è quella dello studente universitario processato per ricettazione perché scambiava alcuni file di musica con i propri amici».
Non la metta giù così: il ferroviere assolto a Torino si trovava in possesso di software per 50 milioni.
«Il punto vero è che non si possono dimostrare le statistiche da disastro economico per i danni provocati dalla pirateria informatica. Sono pure affermazioni di chi fornisce quelle cifre. La questione è questa: un privato, se non duplica i programmi, li va a comprare? Altro è la duplicazione industriale, che dalle parti di Napoli e non solo è un vero affare. Sono d’accordo con la sentenza di Torino: per dimostrare il reato di ricettazione occorre la consapevolezza che i programmi duplicati siano stati pescati da un sito pirata. E’ un po’ come andare al mercatino delle pulci, a Roma o altrove: quello che compri lì deve essere per forza di provenienza furtiva?».
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