Una sentenza della Corte di cassazione ribadisce l’ovvio: chi aiuta qualcuno a commettere un reato, anche tramite un blog, ne paga le conseguenze. Ma non tutti sono d’accordo
di Andrea Monti – PC Professionale – febbraio 2017
La quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza numero 54946, ha ribadito un concetto tanto semplice quanto difficile da digerire per blogger, social networker e via scrivendo: ognuno è responsabile (anche penalmente) di quello che fa online, sia direttamente sia – come in questo caso – consentendo a qualcun altro di commettere un reato.
Il caso affrontato dalla Corte riguardava la diffamazione commessa a danno del presidente della Lega Pro, Tavecchio, “accusato” da un commento pubblicato su un sito di essere un “farabutto” e un “pregiudicato doc” e non cancellato dal gestore del sito in questione. Tre giorni dopo la pubblicazione del commento, l’autore del post inviava al gestore del sito una mail con il certificato penale di Tavecchio, e dunque, secondo la Corte d’appello che aveva condannato il ricorrente, questo dimostrava che il gestore del sito era a conoscenza del commento diffamatorio.
Nello specifico, scrivono i giudici, “il giudizio di responsabilità veniva … formulato per l’aspetto … dell’aver l’imputato mantenuto consapevolmente l’articolo sul sito, consentendo che lo stesso esercitasse l’efficacia diffamatoria che neppure il ricorrente contesta … allorché ne apprendeva l’esistenza, fino al successivo 14 agosto, allorchè veniva eseguito il sequestro preventivo del sito.”
La difesa dell’imputato, che non ha negato la diffamatorietà del post, si è basata sul fatto che il gestore del sito non fosse a conoscenza del commento incriminato e che il suddetto gestore non poteva essere considerato responsabile per il fatto commesso, a sua insaputa, da un terzo.
Se le cose fossero andate effettivamente come ha sostenuto la difesa, la sentenza sarebbe stata ingiusta e sbagliata. E’, infatti, un dato acquisito da tempo immemore che nessuno (internet o non internet) può essere ritenuto responsabile di un fatto autonomamente commesso da qualcun altro. Inoltre, ai sensi del decreto legislativo 70/2003 che recepisce la direttiva sul commercio elettronico, non sussiste in capo al gestore un obbligo di monitoraggio preventivo degli utenti di una piattaforma online, non spettando al gestore entrare nel merito dei singoli comportamenti. Infine, la tutela della libertà stampa che vale per le testate giornalistiche e che ne impedisce la censura vale, a maggior ragione per le manifestazioni individuali della libertà di espressione.
Anche i media che si sono occupati del caso hanno seguito questa falsariga (mai termine fu più appropriato) e hanno lanciato degli allarmi sul rischio censura che, però, sono privi di fondamento.
Basta leggere la sentenza per rendersi conto che, in realtà, non è così.
Innanzi tutto, l’imputato ha tacitamente ammesso che il commento fosse diffamatorio. In secondo luogo egli, pur avendo affermato di non avere potuto accedere al sito e rendersi conto dell’esistenza del commento, non ha chiarito “se tale circostanza avesse impedito allo stesso anche di visionare la corrispondenza elettronica e prendere conoscenza del contenuto della missiva, e in caso negativo quale ragione non avesse consentito … di assumere comunque le iniziative necessarie per evitare che la condotta diffamatoria si protraesse.”
Dunque, la condanna è basata su questioni di fatto e non sull’interpretazione censoria di norme giuridiche.
E volendo approfondire la questione, si sarebbe addirittura un ulteriore argomento che nè la Corte d’appello ne quella di cassazione hanno considerato: si capisce dalla lettura della sentenza che il gestore del sito aveva scelto di non moderare i commenti e che, quindi, i post dei visitatori andavano online senza alcun filtro preventivo.
A meno che la quantità dei commenti rendesse impraticabile la moderazione preventiva – come nel caso di una piattaforma che “muove” migliaia di messaggi – il gestore del sito avrebbe dovuto compiere questa scelta per evitare proprio quello che, effettivamente, è accaduto.
Astrattamente, quindi, a fondare la responsabilità dell’imputato ci potrebbe essere anche l’accetazione consapevole del rischio (dolo eventuale, in legalese) di supportare comportamenti illeciti di terzi.
In conclusione, la sentenza non è particolarmente innovativa nè censoria perchè ricorda al “popolo della rete” che nascondersi dietro un monitor non elimina la responsabilità individuale.
Ma proprio questo è il nervo scoperto colpito da questa sentenza: mentre sempre di più le scelte politiche nazionali e comunitarie – e le posizioni espresse dalle autorità di protezione dei dati personali – vanno verso la immotivata responsabilizzazione di operatori di telecomunicazioni e internet provider per le azioni individuali degli utenti, la Corte di cassazione mette un punto fermo a questa deriva politica che smantella l’articolo 27 della Costituzione secondo il quale la responsabilità penale è personale.
Fino alla nausea, dunque, va ribadito che chi vuole commettere atti illeciti, online e no, deve essere pronto a subirne le conseguenze. E che il diritto alla libertà di parola non significa diritto alle parole in libertà.
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