Marketing e comunicazione sono due concetti (prima che strumenti) molto diversi. Confonderli, specie quando si parla di GDPR, genera conclusioni sbagliate e dannose per imprese e consumatori
di Andrea Monti Key4biz.it del 21 settembre 2017 Nella sua pervasività, il GDPR si estende anche alle attività di comunicazione. Ma la sua applicazione a questo settore soffre, oltre che della storica ed errata sovrapposizione fra “privacy” e “protezione dei dati personali” anche di una imprecisa conoscenza, da parte dei regolatori, del mondo della comunicazione.
Come sempre, e come insegna l’antico diritto romano, partiamo dai fatti e dunque dalle definizioni.
Il marketing studia quattro “oggetti”: il prodotto (inteso come oggetto fisico e relativa confezione), il prezzo (cioè la somma alla quale vendere il prodotto), il posizionamento (cioè l’identificazione e la gestione dei canali distributivi) e la promozione (cioè la scelta degli strumenti per entrare in contatto con i potenziali acquirenti, come ad esempio la pubblicità, la vendita diretta, le pubbliche relazioni e via discorrendo).
Cosi sia e cosa faccia la pubblicità è spiegato con estrema ed efficacissima sintesi da due frasi, una – Truth well told (La verità, detta bene) – che costituisce da sempre il fondamento della strategia di comunicazione di un gigante dell’advertising come McCann Erickson. L’altra – You cannot bore people into buying your product (non si può annoiare la gente per far comprare il tuo prodotto – pronunciata da David Ogilvy, unanimemente riconosciuto come il più grande advertising man della storia.
Questi due principi si traducono nelle quattro caratteristiche della pubblicità: credibilità, affabulazione, controllo, ripetitività.
E’ evidente che l’impatto maggiore del GDPR è sulle attività di marketing. Ciascuno dei suoi quattro ambiti operativi, infatti, è fortemente condizionato dalla disponibilità di dati non solo statistici ma anche, se necessario, personali. Siccome la definizione di una corretta strategia di marketing è cruciale rispetto al successo di una campagna pubblicitaria, è evidente che il primo interesse di chi raccoglie i dati necessari è che questi siano attendibili, veritieri e aggiornati. Cioè esattamente quello che la legge richiede come elementi per considerare “corretto”, “fair” il trattamento dei dati personali. In questo senso, dunque, c’è una perfetta coincidenza fra le necessità industriali e le prescrizioni normative.
Una campagna pubblicitaria, invece, ha legami meno saldi con l’accesso a informazioni personali perchè, appunto, tutta la fase di analisi del mercato (posizionamento del prodotto, clusterizzazione dei consumatori, scelta dei canali di comunicazione e via discorrendo) è stata già fatta altrove. Dunque, l’obiettivo primario di una campagna pubblicitaria, a parte, ovviamente, promuovere il prodotto, è verificare la propria efficacia. Questo viene fatto, nei canali monodirezionali come radio, stampa e televisione, grazie a calcoli statistici gestiti spesso da terze parti. In questi casi, l’agenzia – e il suo cliente – non hanno accesso a dati personali, che sono infatti trattati da chi gestisce i focus group, d dunque non devono preoccuparsi del GDPR (tranne che per alcuni aspetti contrattuali legati all’acquisizione dei risultati delle analisi di impatto della campagna).
Quando si passa alla pubblicità online le cose possono essere più complicate perché i confini fra marketing e advertising diventano più labili. E l’applicazione del GDPR diventa molto più articolata a seconda delle scelte in ambito tecnologico (utilizzo di identity management provider e social login, ad-server ecc.) e del tipo di dati che si vogliono raccogliere (click-through anonimi, profilazioni).
Capire, dunque, come applicare il GDPR al mondo della comunicazione dipende innanzi tutto dal mantenere una chiara distinzione di ruoli nel flusso che, parte dalla creazione di un prodotto, prosegue con la sua immissione sul mercato e si conclude con la vendita.
O, meglio, come insegna Amazon, con la post-vendita.
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