Il dibattito italiano sui limiti alla circolazione del contante soffre del “male eterno” che affligge le scelte di politica pubblica: quello dell’emergenza permanente. Con le tubazioni del gettito fiscale che perdono acqua molto più di quelle degli acquedotti —e con una politica che, storicamente, è in grado di concepire solo misure di brevissimo periodo— non stupisce che il tema si riduca a volgarizzazioni eccessive e dunque inutili di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
Da un lato, assistiamo alla solita semplicistica radicalizzazione manichea lanciata dai frequentatori dei social network e amplificata dai media professionali, questa volta nella versione “evasori contro cittadini virtuosi” o “autonomi contro dipendenti”. Dall’altro, il potere pubblico naviga fra Scilla (la necessità di coerenza rispetto a “istanze di libertà”) e Cariddi (la necessità di far entrare “soldi veri” nelle casse dello Stato) rischiando di affondare nei vortici scatenati dall’una e dall’altra. Anche in un contesto del genere, dunque, c’è poco tempo e poca voglia di riflettere in termini di sistema e farsi qualche domanda sull’ennesimo effetto disruptive causato dalla diffusione spregiudicata delle tecnologie dell’informazione e dal controllo ferreo che Big Tech esercita sul settore.
Mentre il dibattito si trascina confusamente in nome del “secondo me” e della citazione decontestualizzata di studi, statistiche ed estemporanee analisi criminologiche su fenomeni corruttivi e di varia illegalità fiscale, rimane fuori fuoco quello che dovrebbe essere l’oggetto principale dell’azione politica: decidere chi è proprietario della ricchezza prodotta dal lavoro (autonomo o dipendente, non importa).
Come spiego in un articolo accademico pubblicato in tempi non sospetti, il controllo della ricchezza è uno degli attributi dello Stato sovrano. Il diritto esclusivo di “battere moneta” e quello di riconoscere e limitare il diritto di proprietà privata sono due strumenti tramite i quali gli Stati mantengono il controllo sui consociati. Questo spiega il perché in Italia non possono, anzi, non potrebbero, esistere le private currency, perché invece un progetto (pur fallito) come Libra è nato negli USA dove le monete private fanno parte dell’antropologia locale e perché le criptovalute, prima di diventare oggetto di speculazione, sono nate per rivendicare anarchicamente la libertà individuale dal controllo pubblico sulla ricchezza.
In sintesi, fino quando uno Stato mantiene il controllo esclusivo sul “cosa” costituisce ricchezza e sul come la si fa circolare, i consociati non hanno alternativa se non sottostare alle regole imposte dal decisore che, in qualsiasi momento può “dare” e può “togliere”. Non si tratta solo del potere coattivo di imposizione fiscale ma anche di quello in base al quale controllare il corso legale di una moneta. Chi ha vissuto la “notte dell’Euro” ricorderà il cambio di percezione psicologica rispetto alle banconote di Lire in vario taglio allo scoccare della mezzanotte: da oggetti che rappresentavano ricchezza sono improvvisamente diventate carta straccia o, al più, collectible.
Poi arrivano le piattaforme di e-commerce che portano all’estremo il concetto di “voucher” e i videogiochi con la possibilità di acquistare prop e, successivamente, “crediti” o altri “titoli” per ottenere, armi o altri gadget per il proprio personaggio o per l’ambiente nel quale esso si muove (inclusa la follia di “comprare casa nel metaverso”).
La caratteristica comune a questi fenomeni è che le transazioni consistono in “soldi veri” in cambio di un diritto di credito, cioè dell’impegno assunto da un soggetto privato di onorare la richiesta di una controprestazione a fronte dell’offerta di “moneta virtuale” (in questo caso, l’aggettivo è assolutamente appropriato) “garantita” dal titolare della piattaforma. La situazione è identica a quella che si verifica quando si utilizzano carte di pagamento (e di credito, in particolare): usare un sistema dematerializzato e sotto il controllo di un soggetto privato (le banche o le società che emettono carte di pagamento) significa, preliminarmente, costringere una persona a cedere la propria ricchezza individuale incorporata nelle banconote a un terzo (non allo Stato, dunque), il quale in cambio “promette” che la carta funzionerà come una moneta.
È chiaro, dunque, che il tema dell’uso del POS non riguarda (soltanto) quello delle commissioni su microtransazioni o l’onnipresente, ipocrita e stantio “allarme per la privacy”, quanto piuttosto la decisione strategica, dunque di lungo periodo e quindi di interesse nullo per politici e opinionisti, sul “chi” deve essere il proprietario del prodotto del proprio lavoro. Come detto, la nascita delle criptovalute è —almeno inizialmente— una risposta a questo interrogativo: Bitcoin è un modo per sottrarre la circolazione del valore e della ricchezza al controllo dello Stato. Dunque, detto per inciso, il motivo per cui le criptovalute dovrebbero essere messe fuori legge è la loro capacità di attentare alla sovranità statale e non perché consentono riciclaggio o altre forme di azioni criminali. È un dato di esperienza comune, infatti, che le operazioni di ingegneria fiscale e societaria rese possibili anche dall’esistenza dei paradisi fiscali o da regimi di tassazione fortemente squilibrati già consentono risultati delinquenzialmente molto efficienti.
Anche le criptovalute, tuttavia, sono rientrate nei ranghi e da bandiera ideologica sono mondanamente diventate strumento di speculazione finanziaria. Esse contribuiscono a estendere la portata del sistema di “creditizzazione della ricchezza”; cioè della sostituzione della proprietà individuale con un diritto di credito non nei confronti non dello Stato né del sistema bancario (che, nonostante tutto, è pur sempre regolato) ma a favore di aziende private. Formalmente, queste sono delle “semplici” piattaforme —di gaming, di social networking o di qualsiasi altro digital service— ma nella realtà accumulano sostanza (o meglio, “sostanze”) in cambio dell’effimera disponibilità di un accesso a qualcosa, fin che dura o fino a quando ci si può permettere di pagare.
Big Tech ha avuto e ha sempre di più un ruolo nella “creditizzazione” della ricchezza: in teoria, anzi, in pratica, una persona potrebbe possedere “tutto” senza avere niente: automobili, case, computer, strumenti di lavoro, musica, video, libri —e fra un po’ anche abiti e altre componenti essenziali della vita quotidiana— ma soprattutto moneta e identificazione sono disponibili as a service. Questo è il kit perfetto del “nomade digitale” che oggi si trova nelle Cinque terre, domani a Tijuana e dopodomani a Okotoks. Tutto quello che serve è un account —nemmeno un tablet o un computer— per accedere al portafoglio dei crediti privati che gli consentono di aprire la “smartserratura” della nuova “smartcasa”, accendere gli “smartelettrodomestici” e guidare la “smartmobile”. Tutto, ovviamente, fino a quando il “nomade” sarà in grado di garantirsi l’accesso al “sistema” pagando il corrispettivo del nulla in moneta sonante ottenuta con il lavoro vero. È la fine del (ruolo del) diritto di proprietà e della sua funzione sociale: quella di costruire stabilità e dunque crescita collettiva.
Questo scenario —già reale— suggerisce che un dibattito pubblico sulla dematerializzazione dei pagamenti dovrebbe porsi anche il problema delle conseguenze di lungo periodo di scelte politiche forse in grado di dare qualche risultato nell’immediato, ma certamente capaci di distruggere, alla lunga, la struttura stessa della nostra società. Ecco perché è alquanto miope impostare la discussione sulla lotta di classe e sul conflitto fra gruppi sociali, mantenendo in vita categorie che i fatti e l’economia hanno già consegnato alla storia, mentre Big Tech si appropria indisturbata del nostro mondo e della nostra vita.
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