Benvenuti ad una nuova puntata de “I professionisti dell’informazione”.
Dopo che lo spettro delle Fake News ha infestato per giorni le pagine dei giornali e le aule parlamentari, ora da Repubblica.it arriva il contrordine: si vabbè le Fake News, ma anche no.
La marcia indietro è innestata da un articolo a firma di Giuliano Aluffi che sintetizza i risultati di uno studio dell’università di Oxford secondo il quale gli utenti italiani di piattaforme di social networking e di motori di ricerca sarebbero meno “permeabili” alle bufale online.
L’articolo, però, non indica il nome dello studio (Search and Politics: The Uses and Impacts of Search in Britain, France, Germany, Italy, Poland, Spain, and the United States) e il link al testo (lo potete scaricare qui) che probabilmente Aluffi non ha letto, perchè se lo avesse fatto avrebbe dovuto dare conto dei limiti che gli autori stessi attribuiscono alla loro ricerca.
A pagina 12 dello studio, infatti, pubblicano un paragrafo dal titolo (autoesplicativo) “Limitations”:
This study brings systematic, cross-national evidence to bear on the actual role that search and online media in general are playing in shaping political opinion. However, it is anchored in an online survey that samples Internet users – not the general public – in seven nations. The sample therefore over represents some demographic segments, such as individuals with more schooling, compared to a random survey of the general population. It is also necessarily limited by a focus on the perceptions of Internet users, rather than the study of their actual behavior over time. However, in light of previous research, which has been primarily focused on trace behavior online, our study tends to reinforce and complement work that shows the limits of overly simplistic theoretical perspectives on the bias of search – ones that often underestimate the intelligence, ingenuity, and unpredictability of Internet users across different national contexts.
Sintetizzando la traduzione, i punti essenziali del paragrafo sono:
- lo studio è condotto su questionari somministrati a utenti della rete in sette nazioni e non ad un pubblico generico,
- il campione rappresenta alcuni segmenti demografici (come per esempio: individui scolarizzati) rispetto invece di un campione casuale di persone,
- l’analisi ha riguardato la percezione degli utenti, e non il loro effettivo comportamento.
Limitazioni non banali, dunque. Ed evidenziarle sarebbe stato importante conoscerle perché avrebbero aiutato il lettore a contestualizzare il valore dei risultati e a riconoscere lo studio per quello che è: un’analisi empirica e non conclusiva.
Al contrario, l’articolo di Aluffi presenta i risultati della ricerca come assoluti (o quantomeno, omette di qualificarli come parziali e non rappresentativi) e induce nel lettore una percezione alterata delle conclusioni, che vengono accreditate come valide più dal principio di autorità (uno studio della Oxford University e della Michigan State University) che dal valore intrinseco del lavoro.
A rigore, questo articolo non può certo essere qualificato come “fake news” ma – per certi versi – è peggio di una bufala, perché l’apparenza dell’oggettività giornalistica e della patente di autorevolezza che implicitamente attribuiamo all’editoria professionale nascondono parzialità e imprecisione a scapito del lettore.
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