“Etica” è la parola di moda nel cosiddetto “ecosistema digitale”. Oltre agli “ethical hacker” – presenza storica nel vocabolario di settore- c’è l’etica dei social network, c’è l’etica della cybersecurity, c’è l’etica dell’AI e quella del metaverso (anche se ancora nessuno lo ha mai visto). Nel mondo delle tecnologie dell’informazione c’è un’etica per qualsiasi cosa. Tuttavia, il richiamo all’etica nasconde, nemmeno troppo accuratamente, un sostanziale disinteresse per la legge e per le regole che accomunano individui, imprese e istituzioni di Andrea Monti – inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
Il mantra sbagliato ma ripetuto da decenni è “la tecnologia è più veloce della legge”. In nome di questa parola d’ordine, invece di applicare principi e norme esistenti e largamente validi anche per i fenomeni tecnologici, si invocano “scorciatoie etiche”. Queste invocazioni, però, sono spesso viziate dalla necessità di raggiungere obiettivi non necessariamente diretti a soddisfare il bene comune.
Invocare l’etica come fondamento di un’azione esalta l’arroganza del pretendere che convinzioni individuali assumano valore generale o giustifichino la violazione di norme condivise. È il risultato di quello che, nel mio prossimo libro sui digital rights ho definito il “paradosso della solitudine di gregge”: pensare di essere parte di una società quando tutto ciò che resta è un computer collegato alla rete, chiusi in una stanza o ignari di ciò che accade attorno a noi stessi.
Una volta rotto il legame di prossimità fisica che caratterizza una società, viene meno la necessità di avere – e seguire – norme condivise. Ridotti a singoli insetti, gli individui si aggregano e disgregano in sciami a seconda dell’obiettivo da raggiungere o del bersaglio da attaccare. La cancel culture e il tribal marketing basato sulla profilazione sono esempi, anche se non gli unici, di questo fenomeno. Questa condizione è indotta, amplificata – se non addirittura creata – dal marketing dell’industria tecnologica che estende sempre di più il ricorso a mediatori artificiali con la realtà. Anche questo è un tema in discussione da decenni, ma del tutto trascurato dai più.
È presto per dire se, dopo i social network, prodotti come il metaverso cambieranno le nostre vite (comprese quelle di chi non vuole usarli) o se saranno l’ennesimo flop in attesa della next big thing. Sia come sia, il metaverso è la migliore descrizione di questa “solitudine di gregge”. Ciascuno è sovrano assoluto di un regno nel quale impone le proprie “leggi” all’unico suddito: se stesso. E come ogni sovrano assoluto, questo re non accetterà che qualcun altro metta in discussione la superiorità dei propri principi morali che, anzi, cercherà di “esportare democraticamente” accendendo flame o scatenando shitstorm.
Anche le istituzioni – l’Unione Europea, in particolare – sfruttano l’etica in modo simile ponendola alla base di scelte normative, tradendo il presupposto essenziale che differenzia una democrazia occidentale da altre forme a “democrazia variabile”. Nella prima non esiste un’etica di Stato, mentre nelle seconde Stato ed etica si confondono fino a diventare la stessa cosa. Se, dunque, nel mondo libero, dai tempi della rivoluzione francese l’etica è un fatto individuale, è evidente che non può diventare il piede di porco per scardinare le norme o per imporle dall’alto.
Le leggi, infatti, sono il risultato di una mediazione fra etiche diverse che trovano una sintesi nel dibattito politico e vengono, infine, tradotte in norme. Dunque, si potrebbe dire che le leggi sono il modo di “mettere nero su bianco” l’accordo fra posizioni etiche contrastanti. In altri termini, “fare la cosa giusta” significa rispettare la legge.
Quando, però, come nel caso dell’AI, è un’istituzione a stabilire l’esistenza di un dovere etico siamo di fronte al primo passo per avventurarsi nuovamente in terreni estremamente pericolosi e non tuttavia ignoti. In passato, infatti, si è già scoperto che razza di mostri popolano le terre dell’etica decisa dal potere e ancora oggi, con la Cina e le teocrazie, abbiamo un esempio concreto e macroscopico di cosa significa porre i valori di Stato o di una confessione religiosa al di sopra del ruolo della legge. Anche in questo caso, nulla di nuovo: è l’eterno contrasto fra il rule of law—il primato della legge – e il rule by law – l’uso della legge per imporre i voleri del potere.
Se, dunque, vogliamo parlare di etica delle tecnologie dell’informazione allora sarebbe importante riportarla nell’alveo che le compete e farla discutere da chi ha il titolo e le competenze per farlo. Solo dopo è possibile innescare un dibattito pubblico e poi decidere cosa e come debba essere normato. Procedere in questo modo è fondamentale per evitare che importanti decisioni di interesse collettivo siano frutto delle convizioni del ciabattino di turno.
Ripeterebbero i ripetitori del mantra di cui sopra – quello sulla tecnologia che corre più veloce del tempo necessario per fare tutto questo – che non ci si può permettere il lusso dell’attesa. Ma se le tecnologie, o meglio le strategie commerciali di Big Tech, corrono troppo veloci, allora andrebbero semplicemente rallentate per consentire la costruzione di scelte consapevoli.
Mentre decidiamo del nostro futuro non sentiremo certo la mancanza dell’ennesima versione dei vari gadget tecnologici spacciati per “innovazione”.
Oppure si?
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