di Andrea Monti
Oppure era meglio non tornare affatto. Se avessi saputo che prendermi qualche giorno di riposo avrebbe scatentato questo putiferio, me ne sarei guardato bene!
A parte gli scherzi, di carne al fuoco ce n’è vermante tanta che probabilmente non riuscirò a dire tutto in questo numero… pazienza, nel frattempo cominciamo con un argomento che mi sta molto a cuore e al quale non ho – fino ad ora – dedicato l’attenzione che meritava: sto parlando della “Guerra dei browser”
I sorgenti “avvelenati”
I fatti credo siano arcinoti a tutti, per cui li riassumo veramente in breve.
Da qualche tempo le attività della Microsoft sono sotto il mirino di svariate autorità governative statunitensi che hanno cominciato a nutrire una qualche vaga preplessità circa la correttezza dell’andamento del mercato dell’informatica. In particolare le preoccupazioni riguardano le politiche di sviluppo dei browser che – strategicamente – rappresentano la killer application nel mondo Internet: il pomo della discordia è infatti l’obbligo imposto da Microsoft ai rivenditori di fornire Internet Explorer insieme ai sistemi operativi, dai quali non non sarebbe tecnicamente separabile.
La saga ha avuto più di un episodio ed ha visto la fortuna arridere in fasi alterne all’uno o altro contendente, ma questa estate un fatto nuovo ha gettato una luce molto diversa sull’intera vicenda: il 6 agosto scorso lo U.S. District Court Judge Thomas Penfield Jackson ha ordinato ala casa di Redmond la consegna dei sorgenti di Windows.
Si, avete letto bene, se non succede qualcosa nel frattempo, uno dei segreti meglio custoditi del mondo (almeno di quello digitale) sta per essere svelato.
Microsoft ha reagito molto duramente a questa “spiacevole” novità sostenendo che una simile decisione equivarrebbe ad obbligare la Coca-Cola a rendere pubblica la mitica formula segreta.
E’ una risposta che potrebbe sembrare sensata ma – se ci pensate un po’ su – si rivela in realtà priva di fondamento e anche fuorviante, come vedrete fra poche righe.
Tornando a noi, cosa ha spinto il magistrato americano a prendere una decisione così clamorosa?
Il ragionamento del giudice è veramente l’uovo di Colombo e si basa su una serie di considerazioni – credo – difficilmente controvertibili.
Andiamo ad incominciare proprio dalla dichiarazione riferita alla Coca-Cola.
Se è vero che la formula della bevanda è segreta, è anche vero che a nessun concorrente è stato mai vietato di fare reverse-engineering sul prodotto fino a produrne di concorrenziali e (vedi il caso Pepsi-Cola) anche migliori.
Nel caso del software e dei sistemi operativi in particolare questo – grazie ad una rigida applicazione della legge – non accade: i sorgenti sono assolutamente blindati e la legge sul diritto d’autore consente di vietare in senso quasi assoluto il disassemblaggio.
Nel corso degli anni sono circolate quasi costantemente voci relative al fatto che questo o quel programma – magari anche carino – non funzionasse al 100% sotto Windows, mentre gli equivalenti – prodotti da Microsoft – sembravano non affetti da particolari problemi.
Se questo sia stato un deliberato tentativo di mettere fuori gioco la concorrenza non ho modo di affermarlo, però in linea di principio è ragionevole pensare che l’accesso diretto ai sorgenti del sistema operativo attribuisca agli sviluppatori indubbie facilitazioni, così come è altrettanto ragionevole pensare che – sperduta fra milioni di linee di codice – una qualche routine possa occuparsi di “sistemare” i software della concorrenza.
E’ pur vero che per consentire a terze parti di lavorare, è stato giocoforze diffondere alcune specifiche, ma è anche vero che queste raramente dicono la verità, tutta la verità nient’altro che la verità.
Si, ma tutto questo che c’entra con la guerra dei browser?
Presto detto.
In termini abbastanza riduttivi, la vicenda è stata presentata un po’ da tutti come l’intervento dell’amministrazione statunitense nei confronti di una pratica presumibilmente scorretta: quella di imporre – con l’installazione del sistema operativo – anche quella del browser.
In realtà le cose non sono così semplici: il problema non è la scelta fra questo o quel navigatore ma fra uno o nessuno.
Dal momento infatti che – per espressa dichiarazione di Microsoft – le funzionalità Internet si integreranno sempre di più nel sistema operativo, e dato che il sistema operativo è per definizione inaccessibile, gli sviluppatori non potranno più produrre software realmente competitivo generando un progressivo ed inarrestabile decadimento dei livelli di concorrenza nel settore.
E’ come una corsa ad handicap (come quelle che si facevano a cavallo fra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo fra cavalli ed esseri umani): certi sviluppatori sarebbero più avvantaggiati di altri, la cui (eventuale) superiorità tecnica, commerciale, economica e quant’altro sarebbe annullata.
Questo è ciò che il giudice Penfield vuole sapere dall’analisi dei sorgenti: se al loro interno sia nascosto un qualcosa che alteri gli equilibri della concorrenza… mica male per uno che ha passato una vita soltanto sui codici di carta!
La cosa abbastanza singolare è – detto per inciso – che Microsoft sembra applicare al diritto due pesi e due misure: quando c’è da lamentare i danni provocati dalla duplicazione abusiva, invoca l’applicazione della legge, quando invece è la legge a fare qualche domanda allora si irrigidisce non poco.
Conferme indipendenti ai sospetti del giudice Penfield potrebbero arrivare dalla testimonianza davanti ad una Commissione del Senato americano resa da Rob Glaser, CEO di RealNetworks. Il resoconto è di Kathleen Murphy (parente di quello della legge omonima?) che in un articolo pubblicato su Internet World del 27 luglio scorso, riferisce di come Glaser abbia >accusato Microsoft, il suo unico e diretto concorrente, di avere disegnato il proprio media-player in modo da “rompere” il RealNetworks player…. Microsoft usa il proprio monopolio nei sistemi operativi per riservarsi un ingiusto vantaggio nel merato dei software applicativi.
Il punto starebbe – come evidenzia James C.Luh nel commento tecnico alla vicenda pubblicato sullo stesso numero di Internet World – nel fatto che all’atto dell’installazione, il Windows Media Player controlla se sia presente un’applicazione di Rela Network; se no, allora provvede a registrarsi come applicazione di default per quel formato senza avvertire l’utente.
A queste accuse Microsoft risponde per bocca di Adam Sohn affermando che questo meccanismo è stato scelto per rendere più facile la vita agli utenti, e che in realtà è possibile in qualsiasi momento associare i file RealAudio e RealVideo alla relativa applicazione.
Si tratta della classica affermazione tecnicamente vera ma sostanzialmente ambigua: associare un file ad un altra applicazione non richiede certo una laurea in matematica o in scienze dell’informazione, ma è anche vero che persino una cosa così banale risulta difficilissima alla stragrande maggioranza degli utenti, che quindi preferirà tenersi installato (o magari non sapere di avere installato) il Windows Media Player invece di esercitare il sacrosanto diritto di scelta (è la risposta di RealNetworks)
A questo punto è necessario fare un po’ di filosofia.
Come sostiene Nathan Newman sul n.34 di The Micro$oft Monitor… è un’anomalia – nella legge sulla proprietà intellettuale – che gli elementi costitutivi della progettazione di un software non siano pubblicamente disponbili.
I lavori tradizionalmente protetti dal copyright, come libri e musica, portano il proprio disegno letteralmente nel loro testo e nelle loro note musicali, disponibili per ogni artista che desideri studiarle e migliorarle. Analogamente, gli inventori di tecnologia tradizionale protetta dal brevetto, devono – per ottenere la registrazione – rendere pubblici i dettagli di funzionamento dell’invenzione.
In realtà a questo stato di fatto ci sono alternative – peraltro assolutamente legali – come la scelta dell’Open Source Software o, se preferite, freeware alla Free Software Foundation/Linux.
Come è facile intuire, tutto ciò è perfettamente allineato con i principi costituzionali di sviluppo dell’arte e della scienza, ma nel caso del software tutto ciò – come abbiamo visto – perde significato.
Da un punto di vista giuridico-privatistico quindi – la segretezza come strumento di alterazione della concorrenza e di pregiudizio dei diritti degli utenti – si passa ad un livello più elevato che è quello dei freni che certe applicazioni del diritto d’autore causano alla innovazione non solo tecnologica.
Ma allora – potrebbe obiettare qualcuno – l’alternativa sarebbe un mondo di trasparenza assoluta? Che fine fanno i segreti industriali? Come si proteggono gli investimenti? Come si produce reddito? Un conto è ragionare di utopie, un altro conto è avere a che fare con la realtà quotidiana.
Preoccupazioni legittime, ma miopi, che non hanno impedito ai maghi degli effetti speciali del film Titanic di scegliere Linux come piattaforma per la scena dell’inabissamento (e sicuramente non si può dire che avessero problemi di budget) o alla Netscape di rilasciare secoli fa una versione di Navigator su questa piattaforma fino a dichiare di voler pubblicare i sorgenti della versione 5; i segnali sono troppi e troppo frequenti per far pensare soltanto ad una moda passeggera.
Il software basato sulla pubblicazione dei sorgenti (open source software) – continua Newman – è generalmente considerato più innovativo e robusto rispetto al software commerciale nel quale solo un limitato numero di progammatori ha accesso al codice sorgente segreto…rivelando il codice sorgente del proprio browser ed incoraggiando gli altri a creare innovazioni,Netscape ha compiuto un passo incoraggiante nella direzione dell’opne source computing, e Microsoft dovrebbe essere incoraggiata a seguirla.
Questo tema è ripreso da Giancarlo Livraghi – al quale affido la conclusione di questa parte – che su “Il Mercante in Rete” (http:/gandalf.it) scrive: >Sono convinto che nel mondo di oggi il concetto generale di “proprieta’ intellettuale” e “diritto d’autore” debba essere rivisto. style=”mso-spacerun: yes”> Il tema si pone con particolare intensita’ e urgenza nel settore del software, e specialmente dei sistemi operativi e della connessione in rete, dove la segretezza e “chiusura” style=”mso-spacerun: yes”> delle tecnologie e’ un danno grave per tutti e porta non solo a una carenza di innovazione ma a quella scadente qualita’, inefficienza e inutile complessita’ di programmi e sistemi con cui siamo costretti a vivere.
Non e’ facile capire se, come e quando il problema sara’ risolto.Potrebbero influire le iniziative di concorrenti intelligenti, le scelte di grandi istituzioni o (come in questo caso) l’intervento della magistratura o di autorita’ normative. Per ora si stanno aprendo solo piccoli spiragli, si stanno combattendo battaglie legali e commerciali che sembrano gigantesche ma sono scaramucce marginali rispetto alla sostanza del problema. Non ci resta che sperare che qualche fessura si allarghi abbastanza per far crollare qualcuno dei muri che si oppongono alle soluzioni piu’ efficienti – o per aprire una strada a chi e’ in grado di offrirci soluzioni migliori.
Antitrust di casa nostra
Mentre in America i giganti si pigliano a pugni, al di qua dell’Oceano – per non essere da meno qualcosa timidamente si smuove anche se non sul fronte del software (che sulle macchie della nostra amministrazione giri ancora il CP/M?). Dopo anni di inerzia – scossa soltanto da qualche conferenza stampa e poco più – l’Associazione Italiana Internet Provider si è decisa a compiere il grande passo: ecco l’inizio del ricorso presentato all’Antitrust (più autarchicamente, Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato – hhtp://www.agcm.it).
La Associazione Italiana Internet Providers intende sottoporre all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato alcune condotte poste in essere da Telecom Italia s.p.a,. più oltre descritte, perché essa accerti l’eventuale sussistenza di violazioni della legge 287 del 1990 e, nel caso, adotti le misure più opportune a ripristinare e garantire la concorrenza nel mercato.
Con un voluminoso e molto argomentato ricorso depositato il 2 febbraio scorso l’AIIP ha ottenuto che nell’adunanza del 10 luglio, l’Autorità deliberasse l’avvio dell’istruttoria nei confronti di Telecom Italia, stabilendo fin d’ora che il procedimento dovrà concludersi entro il 28 febbraio 1999 (mica avranno problemi con Y2K??).
In sintesi, le lamentele dell’AIIP di possono schematizzare come segue:
la vendita sottocosto dei servizi di accesso alla rete Internet, sia per gli utenti residenziali, sia per gli utenti business, praticata per più di due anni consecutivi;
l la discriminazione tra i prezzi praticati da Telecom Italia agli Internet provider per la sola “rete nazionale di raccolta urbana”con l’offerta del servizio ArcIPelago e i prezzi praticati al singolo utente residenziale; la discriminazione nei prezzi praticati ai diversi provider;
l i “sussidi incrociati” tra la fornitura della telefonia vocale e di altri servizi (telefonia vocale, ISDN, frame relay, settori in cui TI è in monopolio o in posizione dominante) e l’attività di Internet provider, in cui è in concorrenza;
l il sovradimensionamento della rete di TI per la fornitura di servizi Internet, che mette in difficoltà i concorrenti, per i quali i costi di rete sono un carico gravoso;
l Il mancato rispetto degli impegni assunti con l’Autorità in seguito alla concentrazione Telecom Italia/Video on Line (provvedimento 4009/96)
Il ricorso sembrerebbe fondato, tant’è che l’Antitrust – con tutte le dubitative di rito – avanza diverse perlessità:
Si deve notare – osserva l’Autorità – che a fronte delle circostanze illustrate dal denunciante, la sinteticità dell’articolazione della separazione contabile relativa ai servizi TIN e Interbusiness, riportata nel bilancio 1996 di TI, non consente di escludere l’ipotesi che TI abbia posto in essere pratiche anticoncorrenziali nella forma di prezzi sottocosto… Sulla base delle evidenze fornite, TI, al fine di rafforzare la propria presenza nel mercato in concorrenza dei servizi di accesso a Internet, apparirebbe agire in modo anticoncorrenziale sfruttando vantaggi derivanti dalla propria posizione dominante nei mercati a monte della telefonia fissa e nelle infrastrutture pubbliche commutate… Il complesso di tali comportamenti configurerebbe un utilizzo da parte di TI di strumenti di competizione che, essendo diretti a rafforzare la propria posizione dominante sul mercato dei servizi di accesso a Internet, e da questa attuabili solo in virtù di una sia contestuale posizione dominante su mercati contigui, sono a tale impresa vietati proprio a causa delle speciali responsabilità che le sono attribuite in ragione della sua posizione di dominanza sullo stesso mercato dei servizi di accesso a Internet…Il comportamento di TI potrebbe configurare un’ingiustificata discriminazione nei confronti delle imprese che forniscono servizi di accesso a Internet allo scopo di pregiudicarne l’attività, in violazione del disposto dell’art. 3 della legge n. 287/90 – dato che – la circostanza che TI offra una infrastruttura di raccolta ai propri concorrenti, a un prezzo solo marginalmente più basso rispetto a l prezzo del servizio TIN finale all’utenza, style=”mso-spacerun: yes”> sembrerebbe implicare che TI applichi nell’offerta di connettività ai fornitori di servizi suoi concorrenti condizioni economiche molto più elevate di quelle praticate a se stessa per la fruizione dell stessa connettività.
Ulteriori valutazioni compiute dall’Autorità riguardano i possibili vantaggi competitivi dei quali potrebbe godere Telecom, traendo forza dalla propria posizione dominante sul mercato dell telefonia fissa che – in quanto contiguo a quello dell’accesso ad Internet – consentirebbe comportamenti irregolari.
Messa in questi termini, la situazione sembrerebbe senza speranza per Telecom Italia che ha affidato le sue repliche ad una memoria che avrebbe dovuto essere depositata – secondo le indicazioni dell’Autorità – entro la fine di agosto.
Cosa accadrà?
E’ presto per dirlo, anche perché gli accertamenti richiesti dalle accuse formulate da AIIP non sono certo semplici da portare a termine: trovare nelle pieghe di un bilancio colossale come quello di Telecom la traccia di una qualche “infedeltà” richiede quantomeno parecchio tempo e – trattandosi di valutazioni contabili – non è semplice prendere una posizione chiara. Credo di potermi invece esprimere sulle accuse di dumping dirette ad attirare gli utenti… francamente non mi sembra che la politica di TIN – con le dovute proporzioni – sia tanto differente da quella degli altri provider che in un modo o nell’altro offrono sistematicamente accessi gratuiti tramite i canali più disparati (riviste, modem e chi più ne ha più ne metta). Per quanto riguarda invece il discorso del sovradimensionamento della rete, sarebbe come dire che la McLaren è scorretta perché ha delle risorse tecniche che le consentono di costruire macchine più veloci delle altre… certo è che – a prescindere dall’esito del ricorso – il mercato della “internet.it” non sarà più lo stesso: o in mano di un unico gestore che farà il bello e il cattivo tempo, o controllato da un’oligarchia le cui capacità sono ancora tutte da dimostrare. Nel frattempo, gli utenti continuerrano ad invecchiare grazie al World Wide Wait, soffocati nello spam.
Pedofili, Internet e informazione
Se giro per biblioteche in cerca di materiale sulla costruzione delle palafitte, sarebbe un errore logico pensare che nelle biblioteche si trovano soltanto libri sulle palafitte; più corretto sarebbe dire: nelle biblioteche, fra le svariate decine di migliaia di pagine, si trovano anche libri sulle palafitte: questa affermazione di straordinaria ovvietà sembra sistematicamente venire ignorata quando c’è di mezzo la Rete.
Credo che oramai argomenti di questo tipo vi provochino la nausea, tante sono le volte che li ho utlizziati su queste pagine, ma non posso fare a meno di ritornare sull’argomento visto che – per l’ennesima volta – un’indagine di polizia sul drammatico problema della pornografia minorile svolta in diversi paesi fra i quali il nostro ha portato nuovamente in prima pagina la distorta percezione che i mezzi di informazione si ostinano a propagandare.
In realtà – magra consolazione – nonostante la notizia sia stata riportata praticamente da tutti i quotidiani, soltanto La Repubblica e Il Corriere della Sera le hanno dato grande risalto.
Pochi l’hanno messa in prima pagina – dice ancora Giancarlo Livraghi in un messaggio circolato su diverse mailng-list fra le quali quella della CGIL) – Fra questi “La Stampa” e La Nazione”, con titoli non molto vistosi e con non lunghi svolgimenti (La Stampa dedica una pagina interna all’argomento, con toni un po’ meno catastrofici di altri giornali)…Il Corriere, oltre a un titolo su cinque colonne in prima pagina, nella posizione di massima evidenza, dedica una pagina all’argomento. Ma se dovessimo assegnare il premio per il massimo di isteria e mistificazione va a Repubblica, che non solo spara un titolo fortissimo in prima pagina ma dedica altre due melodrammatiche pagine all’argomento. Insomma in questo stridulo coro le due voci piu’ acute (e stonate) sono quelle dei nostri due maggiori quotidiani. Chissa’ perche’.
Già, chissà perché….L’altro fatto da prendere in considerazione è l’ingresso ufficiale di un movimento politico sul palcoscenico dei difensori della Rete. La Lista Pannella Roma diffonde il 3 settembre 1998 un comunicato dai toni molto espliciti:
L’azione di polizia internazionale compiuta ieri per colpire presunti pedofili che utilizzavano la rete Internet, sta determinando in Italia un clima da caccia alle streghe che va denunciato con forza. La spettacolarizzazione dell’inchiesta, il rilievo che essa ha avuto soprattutto nel nostro Paese, ha il sapore dell’Inquisizione e avra’ conseguenze rilevanti sulle liberta’ individuali e sul diritto alla privacy. Si assiste a una inconsulta ed emotiva demonizzazione di Internet dipinto nell’immaginario degli italiani come strumento di perversione. Stupisce che nessuno lanci l’allarme sul modo caricaturale con il quale viene trattata l’inchiesta, che da un lato produrra’ l’effetto di ritardare lo sviluppo in Italia del più potente e irrinunciabile mezzo di comunicazione, e dall’altro di scatenare morbose curiosita’. Se preoccupa la legge dagli accenti illiberali sul rapporto internet-pedofili e’ carico di presagi nefasti il fatto che l’inchiesta napoletana sia affidata a quel pm, Diego Marmo, che invento’ il “mostro” Tortora. Contro ogni attacco alla liberta’ in rete invitiamo i navigatori telematici italiani a organizzare con noi una vasta mobilitazione (www.riformatori.stm.it)
Che dire… le argomentazioni – a parte l’ultima sul Caso Tortora che è off topic rispetto a questo articolo – sono condivisibili ma richiedono di essere storicizzate. Non è vero – come ben sapete – che nessuno ha mai detto nulla sulle distorsioni indotte dall’informazione sull’informazione, anzi, è vero il contrario: negli anni scorsi piccole associazione tentavano di far sentire – spesso inutilmente – la propria voce denunciando tutto questo. Bisognava aspettare che qualcuno “che conta” decidesse di occuparsi della questione per avere un po’ di eco. Per carità, nulla di male; l’importante è che non si smagnetizzino le memorie e che ogni file stia nella directory giusta.
Più o meno nelle stesse ore nelle quali veniva diffusa la posizione della Lista Pannella anche ALCEI-EFI (http://www.alcei.it) manifestava ancora una volta la propria opinione: La notizia dell’indagine a carico di alcune persone accusate di possedere materiale “pornografico” ha offerto il pretesto per un’ennesima, e questa volta massiccia, campagna contro la libera comunicazione in rete; che ha invaso oggi le prime pagine dei quotidiani, per non parlare dell’evidenza con cui (ancora una volta) questo tema e’ ripreso dalle emittenti televisive pubbliche e private.
Come sa chiunque abbia approfondito l’argomento, la “pedofilia” (e piu’ in generale la violenza, sessuale o non, contro bambini e adolescenti) e’ un male antico e complesso, profondamente penetrato nel tessuto della societa’, che non si guarisce ne’ si intacca con campagne come questa, ne’ con provvedimenti ipocriti e repressivi come la recente legge per la “tutela dei minori”.
Non da oggi (ma oggi con particolare intensita’ e clamore) i grandi mezzi di informazione si accaniscono nel ripetere un’affermazione senzazionale quanto falsa: che esista un qualsiasi rapporto strutturale fra la circolazione di materiale piu’ o meno proibito e illegale e le reti telematiche.
La diffusione clandestina di videocassette con contenuti talvolta orribili esiste da molti decenni (e per le fotografie da piu’ di un secolo) e non e’ certo l’internet lo strumento piu’ adatto per questo scopo, perche’ e’ troppo trasparente e permette un po’ troppo facilmente di rintracciare i colpevoili (come di perseguitare innocenti, cosa che e’ gia’ accaduta fin troppo spesso).
Queste campagne (come leggi e disposizioni repressive basate sugli stessi pregiudizi) non hanno efficacia alcuna nel reprimere il maltrattamento dei minori, mentre producono un danno enorme alla nostra cultura e alla nostra economia.
L’Italia e’ molto arretrata, nell’uso delle moderne tecnologie di comunicazione, rispetto a paesi di comparabile sviluppo economico e sociale. La continua diffusione di notizie deformate e style=”mso-spacerun: yes”> terrorizzanti non ha altro effetto che rallentare lo sviluppo della rete nel nostro paese, con danno per tutta la societa’ civile e in particolare per le nuove generazioni.
Queste vergognose manipolazioni hanno un altro pernicioso effetto: favorire forme di censura e controllo della rete che, qualunque sia il pretesto, inevitabilmente si traducono in una repressione della liberta’ di parola. In breve, censura. Sono il prodotto di due cose perniciose: ignoranza e ipocrisia. Se non di una deliberata intenzione repressiva da parte di chi teme un troppo libero scambio di informazioni e di idee.
Certo che bisogna dare atto agli autori di questo comunicato stampa di averte una certa fantasia; non deve essere affatto facile doversi occupare sistematicamente sempre e solo di questi argomenti vestendo con abiti nuovi sempre gli stessi concetti, ma del resto i temi di discussioni li fa la grande stampa e se questo è ciò che passa il convento, immagino si deva fare buon viso a cattivo gioco.
E’ comunque un dato positivo che analisi critiche più ragionate sull’attegiamento dei mezzi di informazione comincino ad occupare sempre più spesso le pagine delle riviste specializzate (in attesa che anche i non addetti ai lavori rinsaviscano). E’ il caso di WebMarketing Tools sulle cui pagine Roberto Dadda, commentando un’incredibile puntata di “Mi manda Rai3” dedicata a banche, Rete e carte di credito scrive:…La trasmissione passa ad altro argomento lasciandomi con l’amaro in bocca e quel che è peggio lasciando milioni di spettatori con l’idea che la fonte di tutti i problemi di sicurezza del pianeta sia quella strana cosa che si chiama Internet, fino a qualche anno fa appannaggio esclusivo di pochi pazzi maniaci ed oggi sulla bocca di tutti. Me lo vedo il padre dire al figlio “Ah lo avevo detto che comperare dalla rete era una follia, lo ha detto persino la televisione!”…Parliamo pure di sicurezza sulla rete… ma per favore facciamolo seguendo un filo logico e diamo dati reali…
Appunto, diamo dati reali.
Posto che non ci sono ragioni per escludere che la Rete venga utlizzata per commettere atti illeciti (né più né meno di un’automobile), sembra abbastanza strano che gli unici reati commessi (perché solo quelli sono stati scoperti negli ultimi anni) siano stati quelli di diffusione di materiale osceno.
Non è che gli autori delle indagini stessero cercando sempre e solo… palafitte?
Meditate gente, meditate; il seguito alla prossima puntata.
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