L’incarico di compiere un reportage sulle celebrazioni del 4 luglio —l’Independence Day— a Boston, uno dei luoghi simbolo della storia nordamericana, mi ha dato l’occasione per riflettere sui guasti e sul danno oramai permanente provocati al fotogiornalismo “di strada” dall’isteria per la “privacy” e dallo sfruttamento spregiudicato dei dati individuali da parte di BigTech in nome del principio “meglio chiedere scusa che permesso” di Andrea Monti – Inzialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian TechCome vuole la regola, in attesa delle celebrazioni vere e proprie ho inziato a studiare i luoghi, sperimentare le senzazioni che trasmettono e provare a tradurle in immagini per capire in che modo la città può “parlare” al suo temporaneo frequentatore.
Nel corso di queste esplorazioni è capitato un po’ di tutto, dalla possibilità di ritrarre connazionali di prima generazione (contenti, peraltro, di essere fotografati) che si godevano il sole del pomeriggio seduti davanti a un barber shop nel North End (la Little Italy di Boston), al rischio di una degenerazione “manesca” della conversazione con un “valet” di un negozio, scaturita dall’avere fotografato “senza permesso” la sua Harley-Davidson parcheggiata in strada e conclusasi invece con un’amichevole stretta di mano.
Fra i due estremi, gli sguardi perplessi (e a volte sospettosi) di persone attratte dalla presenza di una macchina fotografica, ma del tutto indifferenti alla miriade di smartphone che, nello stesso momento, stavano riprendendo praticamente qualsiasi cosa e chiunque, come se a preoccupare fosse il mezzo (la fotocamera) e non l’azione (il fotografare).
Il filo rosso che lega queste esperienze è la diffidenza quasi superstiziosa verso il “fermo immagine”, non diversa da quella dei nativi americani convinti che la fotografia li avrebbe privati dell’anima, ma oggi invece basata su ragioni molto meno “spirituali”.
Il fastidio di essere fotografati, infatti, sembra piuttosto collegato da un lato alla convinzione (giuridicamente sbagliata) che esista una “privacy pubblica” e, dall’altro, alla percezione, meno infondata, dell’inaccettabilità che qualcuno possa “fare soldi” sulla propria immagine senza condividere il guadagno. Is this going to be published? —la foto sarà pubblicata?— è la domanda che mi è stata rivolta con maggiore frequenza.
Sotto il primo profilo, è abbastanza facile dimostrare l’inesistenza di una “privacy pubblica” —basta leggere la sentenza 47165/2010 della Corte di cassazione e, per quanto riguarda la protezione dei dati personali, il comunicato del Garante che risale addirittura al 2004—e dunque concludere che, rispettando la dignità della persona e la sua volontà di non essere ritratta nel caso chiedesse di non esserlo, non ci sono limiti ostativi alla street-photography. La tutela giuridica dell’immagine personale è associata al Codice civile e alla parte della legge sul diritto d’autore che disciplina il ritratto. La fotografia non deve ledere la dignità della persona, il fotografo è proprietario dell’immagine scattata e se lo scatto avviene all’aperto e documenta eventi pubblici, l’autorizzazione di chicchessia non è necessaria. Tutto questo, sul presupposto che il fotografo “ci metta del suo”, cioè interpreti la realtà fenomenica attraverso la particolare lente della propria esperienza e sensibilità, altrimenti, per legge, la fotografia non ha tutela sostanziale. Quindi, la fotografia scattata nel rispetto dei limiti normativi è anche pubblicabile liberamente, ma questo non significa che, almeno giuridicamente, possa essere liberamente riutilizzata da terzi.
Più articolato, invece, è il ragionamento relativo allo sfruttamento economico delle fotografie ma soprattutto dei dati che ne possono essere estratti.
In altri termini, non è chi pubblica un’immagine a violare la legge, ma chi la riutilizza in modo illecito, il che ci porta direttamente al tema dello sfruttamento selvaggio dei contenuti pubblicati online.
Questo argomento comincia a diffondersi ai tempi dei motori di ricerca che hanno costruito il proprio successo sulla capacità di accedere liberamente e gratuitamente ai contenuti diffusi in rete, si è “endemizzato” per via dell’anestetizzazione indotta nelle persone dalla dipendenza da social network e della sistematica appropriazione da parte dei media tradizionali di contenuti online “perché tanto sono gratis”, ed è tornato di attualità con le polemiche innescate dalla “scoperta” che, per funzionare, alcune AI sono state costruite utilizzando ancora una volta i dati diffusi dalle persone, ma senza riconoscere loro alcun corrispettivo.
Con buona pace di artisti e professionisti dell’immagine, per chi ha fatto della raccolta e delle analisi dei dati il proprio core business non ha necessariamente importanza se lo scatto sia qualificabile come “semplice fotografia” o come “atto creativo” peché ciò che conta è se e quanti (meta)dati consente di estrarre.
Composizione, attenzione alle luci, cattura del “momento decisivo”… tutto questo diventa irrilevante se anche un’accozzaglia di soggetti ripresi in modo pedestre con uno smartphone “che fa concorrenza alle reflex” consente di identificare (automaticamente o con il contributo dei “tag”) individui, luoghi e, dunque, relazioni, che vanno a ingro(a)ssare il profilo corpulento di ciascuno di noi, rinchiuso e replicato in infiniti database ad accesso riservato a pochi e vietato ai più. Un discorso analogo riguarda la riproduzione dello “stile” da parte di un’AI perché anche nel caso della “copia” di ciò che rende unico un artista sempre di raccogliere e analizzare dati stiamo parlando.
Dunque, in sintesi, grazie all’analisi di enormi quantità di informazioni estratte dalle fonti più diverse i professionisti della profilazione lucrano anche sui dati estratti dalle immagini per costruire cloni informativi delle persone e quelli dell’AI guadagnano anche sull’industrializzazione dello stile e della sensibilità individuale di ciascuno, trasformando l’atto creativo in “prodotto da scaffale”, replicabile all’infinito in altrettante, infinite, variazioni.
Non è immediato percepire in che modo questo ragionamento sia collegato alla street-photography, ma in realtà il legame è evidente.
La fotografia di strada è uno strumento indispensabile per la conservazione della memoria e per la documentazione della enorme diversità dei fenomeni sociali umani. Poco importa che sia praticata da famosi maestri della fotocamera o, come nel caso di Vivian Mayer, da perfetti sconosciuti in vita che solo postumi ascendono all’Olimpo dei grandi.
Tuttavia, questo suo ruolo fondamentale non è percepito (e non è sufficiente a proteggerla) da chi è preda di una visione isterica della privacy, amplificata da chi ha indotto fra la gente la convinzione che, del proprio sé, tutto sia in vendita, dagli organi ai dati.
Di conseguenza, con buona pace delle grandi affermazioni di principio sui “diritti fondamentali”, le lamentazioni sulla “violazione della privacy” e sull’abuso dei propri dati si traducono spesso, alla fin fine, in una semplice e volgare monetizzazione dei diritti: si, va bene la privacy ma, pagando s’intende, tutto si vende e tutto si compra.
Se, dunque, la street-photography cesserà di esistere, e se di conseguenza perderemo la possibilità di conoscere la nostra storia attraverso la lettura che ne fanno reporter professionisti e migliaia di fotografi “dilettanti” in giro per il mondo, non sarà (soltanto) per le astruse interpretazioni del concetto di “vita privata” proposte da miopi regolatori e acriticamente ripetute da esperti di dubbia competenza. Dovremo piuttosto ringraziare il nostro egoismo individuale che, per grettezza o ignoranza, ci ha portato a dare un prezzo a qualsiasi cosa, noi stessi compresi, sperando che qualcuno ci compri (anche a pezzi) invece di prendere tutto e scappare senza pagare il conto.
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