Linux&C n.7
di Andrea Monti
Dopo la sentenza delle (ex) Preture di Cagliari del 1996, e Bologna del 22 febbraio 1998 e del Tribunale di Taranto degli inizi di quest anno, giunge da Torino l’ennesima assoluzione in materia di duplicazione abusiva di software con una decisione depositata il 5 maggio 2000.
Il processo ha riguardato il legale rappresentante di un’azienda, accusato di duplicazione abusiva perchè nel corso di una perquisizione delle forze di polizia si è scoperto che i suoi dipendenti utilizzavano software di dubbia legittimità senza poterne spiegare la provenienza.
L’assoluzione e’ stata motivata sulla base del fatto che non è stata fornita alcuna prova del cosiddetto “dolo specifico” necessario per la sussistenza del reato. Questo in diretta applicazione di un fondamentale principio di diritto secondo il quale non si può essere condannati se non c’è la prova che il fatto è stato commesso con coscienza e volontà. In altri termini, l’accusa non ha dimostrato che il legale rappresentante di questa azienda fosse al corrente di quanto stava accadendo, nè che avesse istigato o tollerato nella propria azienda la presenza di software duplicato abusivamente.
Ma il giudice è andato anche oltre l’enunciazione di questo principio di diritto, ed ha preso posizione anche sulla discussa interpretazione dell’art.171 bis della legge sul diritto d’autore, che sanziona penalmente la duplicazione illecita di software quando è commessa “a scopo di lucro”.
Da tempo, oramai, ci si domanda che cosa si deva intendere con queste parole, considerando che nel codice penale a volte compare anche la locuzione “per trarne profitto”. Considerando che i due termini (“lucro” e “profitto”) non possono essere sinonimi (perché il codice penale è come un programma non ci possono essere variabili diverse con lo stesso nome) si è posto il problema di dare loro un significato che, in qualche modo, li differenziasse. Allora, si è detto, per “lucro” si deve intendere un guadagno economico, mentre il “profitto” è qualsiasi vantaggio, anche non monetario che si trae da un bene.
Applicando questa distinzione al reato di duplicazione abusiva di software si tratta di capire in quale delle due categorie rientra l’utilizzo di copie abusive (e quindi la mancata spesa per acquistare le licenze). La (ex) Pretura di Cagliari si pronunciò affermando che la mancata spesa rappresenta un semplice profitto e quindi che il semplice uso personale non è reato (anche se vanno comunque risarciti i danni civili).
Successivamente la (ex) Pretura di Bologna pur assolvendo l’imputato, si dichiarò di opinione contraria; il risparmio ottenuto duplicando il software è da considerarsi lucro, ma bisogna vedere se l’imputato aveva effettivamente bisogno di quel programma oppure no. In pratica: se in un’agenzia di pubblicità trovano una copia di autocad, è difficile sostenere che un programma di progettazione sia necessario all’attività aziendale e quindi non si può parlare di mancata spesa, perché l’agenzia potrebbe tranquillamente farne a meno. Viceversa, se lo stesso programma venisse rinvenuto in uno studio di archittettura o di ingegneria allora il reato sarebbe stato commesso, visto che autocad è un software strumentale rispetto a queste attività professionali.
Da ultimo, il Tribunale di Torino si inserisce in questo filone e dichiara che la distinzione fra “lucro” e “profitto” non sarebbe sostanziale e che dunque anche la mancata spesa costituisce un elemento del reato. Questa conclusione non mi pare condivisibile per una serie di ragioni che affondano le proprie radici già nella direttiva comunitaria 90/251 (quella che ha istituito la tutela giuridica del software). Questo provvedimento, infatti, è fondamentalmente ispirato a punire i traffici commerciali di software copiato illecitamente (in pratica, la vendita di software pirata) e non anche ipotesi, come quelle dell’uso personale, che al più riguardano la sfera civilistica, cioè quella del risarcimento danni.
Inoltre, la recente normativa a tutela delle banche dati (che recepisce dopo parecchio tempo una direttiva del marzo 1995) si ispira chiaramente all’art.171 bis della legge sul diritto d’autore, solo che ne punisce la duplicazione abusiva non già a scopo di lucro ma di profitto. Se fra i due termini non ci fosse differenza, per quale motivo vengono utilizati due termini differenti?
Infine, la proposta di modifica C4953 alla legge sul diritto d’autore contiene espressamente la sostituzione, nel famigerato articolo 171 bis, dello scopo di lucro con lo scopo di profitto. Ancora una volta dimostrando che la distinzione dei due termini è tutt’altro che una questione di lana caprina.
Ma c’è un punto della sentenza sul quale è opportuno ritornare, quello che ha stabilito la necessità di verificare se effettivamente il legale rappresentante dell’azienda sapesse o meno della presenza in azienda di software illecitamente riprodotto. Se il giudice avvesse deciso in modo differente, sarebbe bastato trovare anche un solo software “abusivo” sperduto in un cassetto per far condannare il legale rappresentante di un’azienda non solo e non tanto ad una pena, ma al risarcimento anche del danno morale (che in assenza di reato non può essere richiesto). Con ciò facendo un enorme favore alle major del software.
In realtà, dunque, questa sentenza è molto più articolata e problematica di quanto possa sembrare, perché da un lato non “depenalizza” la duplicazione abusiva di software (come invece molti hanno detto e scritto un po’ dappertutto) ma dall’altro non costituisce nemmeno – come vorrebbero le associazioni di categoria dell’industria del software – una chiara ed univoca intepretazione di una legge, quella sul diritto d’autore, che sarà in futuro oggetto di nuove battaglie politiche e giudiziarie. In particolare per quanto riguarda lo statuto giuridico dei free software, sconosciuti non solo tecnicamente all’Autorità Giudiziaria che in alcuni casi, pare, nel corso di accertamenti abbia ritenuto Linux duplicato abusivamente.
C’è solo da sperare che sia un hoax.
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