di Andrea Monti – PC Professionale n. 130
Non basta il sequestro di computer per sostenere l’accusa, occorre esibire anche la copia integrale dell’hard disk al fine di ottenere valore di “prova “ nel corso del dibattimento.
Le assoluzioni di persone accusate di duplicazione abusiva di software sono talmente numerose da non fare più notizia. Ma la decisione del tribunale di Chieti emanata lo scorso 23 novembre (che faceva seguito ad un’assoluzione “di massa” pronunciata dal tribunale di Pescara il 26 settembre 2001) rappresenta un “fatto nuovo” perché ha definito gli “elementi minimi” che il pubblico ministero deve possedere per sostenere l’accusa. In pratica, ha stabilito il giudice, se l’accusa si basa soltanto sul contenuto del computer e nel processo viene meno la disponibilità dell’elaboratore, gli accertamenti tecnici eseguiti dal pubblico ministero durante le indagini non hanno valore di prova e quindi non sono sufficienti per affermare la colpevolezza dell’imputato. Ma vediamo più in dettaglio come si sono svolti i fatti.
Nel corso delle indagini la polizia giudiziaria aveva sequestrato il computer “sospetto” per poi sottoporlo ad accertamento tecnico da parte di un consulente della Procura della Repubblica. Terminata la consulenza, il magistrato ha disposto la restituzione del computer, ma la polizia giudiziaria, nell’eseguire quanto disposto, non ha effettuato una copia fisica del disco rigido. Né ha svolto ulteriori indagini per verificare se il sospettato – la cui colpa sarebbe stata quella di essere stato trovato con una copia installata di CorelDraw7 su un portatile 486sx, 4Mb di Ram e monitor 10 pollici in toni di grigio – fosse coinvolto in “giri” di duplicazione, scambio o falsificazione di software.
Fra la restituzione del computer e la celebrazione del processo sono passati due o tre anni e di quel portatile, oramai, si era persa ogni traccia. Per cui, quando al dibattimento è stata chiesta l’esibizione del corpo del reato (cioè del programma che la Procura affermava essere stato duplicato abusivamente) il giudice ha dovuto prendere atto che si era verificata la cosiddetta “dispersione”. Cioè che era venuto meno un elemento importante ai fini della decisione. Il giudice ha poi dovuto prendere atto che la Procura non aveva svolto alcun tipo di indagine ulteriore rispetto agli accertamenti tecnici sul computer che, essendo stati eseguiti da una “parte” (pur trattandosi del pubblico ministero), non avevano valore di “prova” perché non era possibile ottenere riscontri al dibattimento. La motivazione della sentenza non è stata ancora depositata, ma dallo svolgimento del processo emergono alcune indicazioni estremamente importanti.
In primo luogo, viene fornita una precisa indicazione agli operatori di polizia giudiziaria: nel restituire computer sequestrati è indispensabile effettuare una copia integrale delle memorie di massa, in modo da consentire l’esibizione del corpo del reato e l’effettuazione di perizie nel corso del dibattimento. In secondo luogo viene oramai consolidato il principio che la “semplice” detenzione irregolare di un programma non è elemento sufficiente a fondare la responsabilità penale di un soggetto.
Secondo un orientamento già espresso dal tribunale di Torino che ritiene indispensabile anche l’accertamento del cosiddetto “elemento psicologico” del reato, cioè il famigerato scopo di lucro o, adesso, di profitto. Bisognerà attendere il deposito della motivazione della sentenza per sapere se il giudice avrà colto l’occasione per analizzare problemi più generali legati alla regolamentazione della proprietà intellettuale, come il diritto alla copia di riserva, l’uso privato, il bollino SIAE e via discorrendo. Nel frattempo, non possiamo che tirare un sospiro di sollievo per l’ennesima prova di equilibrio offerta da un magistrato giudicante.
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