WebMarketing Tools n.29/00
DNA e diritto d’autore. Necessità di codici aperti della conoscenza
Intervento al convegno[1]
I nostri dati genetici. Opportunita’, rischi, diritti
Roma, mercoledì 21 giugno 2000
Palazzo Ferrajoli – Piazza Colonna 5
di ALCEI – alcei@alcei.it
Le recenti polemiche sulla brevettabilità dei prodotti dell’ingegneria genetica hanno sollevato un vespaio di polemiche in particolar modo per quanto riguarda l’estensibilità della “patent protection” anche a (parti di) esseri umani.
Da più parti si sono levate voci autorevoli (non solo provenienti dal mondo politico) che hanno condannato questa tendenza, ma quello della brevettabilità non è il solo aspetto problematico evidenziato dall’evoulzione della tecnologia di settore.
L’ingegneria genetica – detto per inciso, la vera rivoluzione dei tempi che stiamo vivendo –sta mettendo in crisi l’assetto tradizionale della regolamentazione della proprietà intellettuale riproponendo con forza una domanda che aleggia nell’aria da tempo ma che nessuno si decide a formalizzare: chi possiede le informazioni?
Oppure, guardando l’oggetto da un’altra prospettiva, ci si può chiedere: la digitalizzazione delle informazioni ne cambia la natura?
I dati non disponibili in forma elettronica sono di scarsa utilità; anzi si può dire che la loro utilità decresce all’aumentare della loro mole. Quando però una enorme quantità di dati può essere creata, gestita e manipolata informaticamente le cose cambiano e proprio quella che era una debolezza – la numerosità – diventa grazie ai computer un vero e proprio punto di forza, rendendo possibili elaborazioni prima impensate.
Questo implica, da un lato, la “valorizzazione”, anzi la “patrimonializzazione” economica dell’informazione, ma dall’altro il fatto che l’informazione “perde qualità”, viene in qualche modo “omogeneizzata” in una sequenza di bit. Un fenomeno che possiamo osservare in svariati campi, dall’economia, al marketing alla manipolazione genetica.
Siamo già al punto – scrive James Boyle – in cui le informazioni genetiche sono viste in primo luogo come informazioni. Ci occupiamo del nessaggio informativo – la sequenza di A, G, C, S e T – e non del mezzo biologico. Il progetto genoma è soltanto un gigantesco esercizio di crittografia. Come già gli archeologi che lavorarono sulla stele di Rosetta, abbiamo violato il codice e possiamo ora usare il DNA come una lingua da parlare e non come un oggetto da esaminare.[2] Lo sviluppo delle biotecnologie e il completamento della mappa genetica, continua Boyle, consentiranno di intervenire sul patrimonio genetico di un soggetto con strumenti analoghi ai word processor: del destino biologico verrà semplicemente scritta una prima bozza, sulla quale effettuare un controllo ortografico, qualche modifica o addirittura una completa riscrittura.
Questa prospettiva evidenzia chiaramente che il brevetto è uno strumento difficilmente applicabile alla protezione delle informazioni genetiche.
Una conclusione teorica suffragata dal diniego opposto dalle autorità competenti al National Institute of Healt americano, quando questi ha cercato di brevettare 2.750 sequenze cDNA. Mentre, infatti, negli Stati Uniti gli organismi genticamente manipolati sono brevettabili fin dal 1980 per via di una sentenza della Corte Suprema[3], le sequenze di DNA non sono “inventate” ma “scoperte” e dunque non tutelabili con questo strumento.
In realtà, il livello di protezione da attribuire ai dati – e a quelli genetici in particolare – dipende dall’utilizzo che se ne vuole fare. Già nel 1987 Walter Gilbert, uno dei pionieri della ricerca in questo settore, dichiarava al Washington Post: non credo che il genoma sia brevettabile. Quello che ci interessa è imporre il copyright sulle sequenze. Ciò significa che se qualcuno vorrà leggere il codice, dovrà pagarci il diritto di accedervi. Il nostro scopo è rendere l’informazione alla portata di tutti. Purchè paghino un prezzo[4]
Questa impostazione evidenzia chiaramente che al tradizionale e più immediato strumento di protezione della proprietà intellettuale, il brevetto, comincia ad affiancarsi ora anche il diritto in forza del quale la possibilità di accesso alle informazioni è nelle mani dell’autore che è l’unico e solo a decidere chi – e a che prezzo – può utilizzarle. Solo che questa volta non stiamo parlando di un software o di una canzonetta, ma di “esseri” viventi o potenzialmente tali.
Siamo di fronte all’ennesima, surrettizia e pericolosa estensione dell’applicabilità del copyright a settori nei quali l’approccio “proprietario” dovrebbe essere totalmente bandito. E non sulla base di romantiche utopie di inizio secolo, ma per la tutela del bene comune.
Perché gli esseri viventi, non abbiano “proprietari” nè “autori”
[1] Quello che state leggendo è il testo dell’intervento inviato dall’Associazione per la Libertà nella Comunicazione Elettronica Interattiva, al convegno organizzato da CNR, Legambiente e Garante dei dati personali. Potrebbe sembrare un off topic ma non è così. Ho pensato che fosse utile diffondere questo testo quanto più possibile perchè pone dei problemi di ordine generale e non limitati (per modo di dire) alle questioni della manipolazione genetica. L’impatto (negativo) dell’aumento di vigore della disicplina sulla proprietà intellettuale rischia seriamente di diventare uno dei maggiori fattori di rallentamento per l’industria della conoscenza. Specie in un settore, la New Economy, nel quale l’informazione è una vera e propria linfa vitale.
[2] J.Boyle, Shamans, software & spleens 1997 Harvard University Press, p.4
[3] Diamond vs. Chakrabarty, 447 U.S. 303 (1980)
[4] Larry Thompson Genes, Politics and Money: Biology’s Most Ambitious Project Will Cost a Fortune, but It’s Value Could Be Out beyond Measure Washington Post Z12 (24/2/1987)
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