di Andrea Monti – Interlex n. 341 – 23 febbraio 2006
Il processo di “riarmo normativo permanente” avviato dalle lobby dell’audiovisivo con la direttiva 91/250 (quella sul software) ha registrato di recente una cruda escalation culminata – in sede comunitaria – con la presentazione della direttiva Frattini sulle sanzioni penali per le violazioni del diritto d’autore e, in Italia, con l’approvazione semiclandestina, senza motivi di urgenza (e a camere praticamente sciolte) lo scorso 3 febbraio 2006 del decreto legislativo di recepimento della direttiva 2004/48 che si occupa del versante civile delle violazioni in questione.
Il testo del decreto legislativo peggiora sensibilmente quello della direttiva 2004/48 che nelle parti che contano è inaccettabilmente sbilanciata a favore della tutela degli interessi dei “soliti noti” e si limita a qualche contentino formale per utenti e operatori (anche dell’internet)…
Come se questo non bastasse, il legislatore italiano ha fatto ricorso a un vero e proprio repertorio di tecniche manipolative del testo comunitario che rendono il decreto legislativo sufficientemente vago da essere interpretato a seconda delle convenienze. La prova di questa affermazione emerge molto chiaramente fin dall’esame dei “considerando” della direttiva 2004/48.
Leggiamo, per esempio, al n. 14 che È necessario che le misure previste dall’articolo 6, paragrafo 2, dall’articolo 8, paragrafo 1, e dall’articolo 9, paragrafo 2, siano applicate unicamente ad atti commessi su scala commerciale. Ciò lascia impregiudicata la possibilità per gli Stati membri di applicare tali misure anche nei confronti di altri atti. Per atti commessi su scala commerciale si intendono gli atti effettuati per ottenere vantaggi economici o commerciali diretti o indiretti, con l’esclusione di norma degli atti effettuati dai consumatori finali in buona fede.
Che, tradotto, significa: questa direttiva consente di emanare norme repressive indifferentemente anche nei confronti dei consumatori finali in buona fede.
Il considerando, infatti si limita a dire che gli atti su scala commerciale non comprendono quelli compiuti dai consumatori finali in buona fede. Ma nello stesso tempo dà agli Stati il potere discrezionale di estendere la portata dei decreti di recepimento anche oltre gli atti “su scala commerciale”.
Il “considerando” 18 recita: Il diritto di chiedere l’applicazione di tali misure, procedure e mezzi di ricorso dovrebbe essere riconosciuto non soltanto ai titolari dei diritti, ma anche alle persone direttamente interessate e legittimate ad agire nella misura in cui ciò è consentito dalla legge applicabile e conformemente ad essa, comprese eventualmente le organizzazioni professionali di gestione dei diritti o di difesa degli interessi collettivi e individuali di cui sono responsabili.
Che si legge: questa direttiva attribuisce alle royalty collecting agency e alle “associazioni di categoria” il potere autonomo da quello del titolare dei diritti di promuovere azioni giudiziarie.
Il successivo “considerando” 19 stabilisce: Poiché il diritto d’autore esiste fin dalla creazione dell’opera e non richiede una registrazione formale, è opportuno riprendere la regola di cui all’articolo 15 della convenzione di Berna secondo la quale si presume autore di un’opera letteraria e artistica la persona il cui nome è indicato sull’opera. Analoga presunzione dovrebbe essere valida per il titolare dei diritti connessi poiché spesso è il titolare di un diritto connesso, ad esempio il produttore di fonogrammi, che si adopera per difendere i diritti e contrastare gli atti di pirateria.
In altri termini: gli sfruttatori dei diritti economici sulle creazioni artistiche – non gli autori, dunque – quando “fanno causa”, sono esentati dal dimostrare di avere il diritto di agire in giudizio.
Quelli che avete appena finito di leggere sono degli esempi di “manipolazione per offuscamento”, in cui l’obiettivo principale è “diluito” in un “fraseggio” involuto e labile.
Dello stesso tenore manipolativo, ma questa volta con un palese ricorso alla tecnica “trasformazione in regola dell’eccezione” sono i “considerando” che seguono:
(15) La presente direttiva dovrebbe far salvi il diritto sostanziale della proprietà intellettuale, la direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione
di tali dati, la direttiva 1999/93/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 1999, relativa ad un quadro comunitario per le firme elettroniche e la direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno.
L’uso del condizionale (dovrebbe) significa che in fase di recepimento si può “non far salve” e dunque superare, la disciplina sul trattamento dei dati personali e il DLgv 70/2003 (che recepisce la direttiva 31/00 sul commercio elettronico). In pratica, ciò significa “potere” di emanare norme che, a favore della “proprietà intellettuale”, “potrebbero” disapplicare la tutela della riservatezza, l’obbligo di correttezza nel trattamento dei dati personali, l’assenza dell’obbligo generale di sorveglianza per gli internet provider e il principio di non responsabilità del provider ai sensi dell’art.17 del DLGV 70/2003.
Analogo discorso vale per il “considerando” 16: La presente direttiva dovrebbe lasciare impregiudicate le disposizioni particolari per il rispetto dei diritti e in materia di eccezioni nel settore del diritto d’autore e dei diritti connessi stabilite negli strumenti comunitari, segnatamente quelle previste nella direttiva 91/250/CEE del Consiglio, del 14 maggio 1991, relativa alla tutela giuridica dei programmi per elaboratore e nella direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione.
Ancora una volta il condizionale “ribalta” il significato del testo e “attribuirebbe” la forza di regolamentare anche settori – come appunto il software e i servizi della società dell’informazione – che a una prima lettura sembrerebbero esclusi dall’ambito applicativo del testo comunitario.
Quando occorre, invece, la direttiva usa chiaramente l’indicativo: 20 Posto che la prova è un elemento determinante per l’accertamento della violazione dei diritti di proprietà intellettuale, è opportuno garantire che siano effettivamente a disposizione i mezzi per presentare, ottenere e proteggere le prove. Le procedure dovrebbero avere riguardo ai diritti della difesa e fornire le garanzie necessarie, anche riguardo alla tutela delle informazioni riservate. Per le violazioni commesse su scala commerciale è importante che gli organi giurisdizionali possano ordinare l’accesso, se del caso, a documentazioni bancarie, finanziarie o commerciali che si trovano in possesso del presunto autore della violazione.
Per poi “scivolare” nuovamente nell’ambiguità con il considerando 23: Fatti salvi eventuali altre misure, procedure e mezzi di ricorso disponibili, i titolari dei diritti dovrebbero avere la possibilità di richiedere un provvedimento inibitorio contro un intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare il diritto di proprietà industriale del titolare. Le condizioni e modalità relative a tale provvedimento inibitorio dovrebbero essere stabilite dal diritto nazionale degli Stati membri. Per quanto riguarda le violazioni del diritto d’autore e dei diritti connessi, la direttiva 2001/29/CE prevede già un ampio livello di armonizzazione. Pertanto l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29/CE non dovrebbe essere pregiudicato dalla presente direttiva.
Ancora una volta il micidiale dovrebbe produce il suo effetto: la direttiva 2004/48 può “invadere” anche il campo – diritti d’autore e società dell’informazione – già occupato dalla direttiva 2001/29.
Vediamo ora in che modo il legislatore italiano ha usato gli enormi spazi di manovra lasciatigli dalla direttiva.
Innanzi tutto è palese, nel decreto legislativo, la stessa ambiguità definitoria della direttiva: manca, per esempio, un limite espresso al significato attribuibile al termine “intermediario”. Lasciando il testo così com’è, si può arrivare a considerare responsabile di un illecito anche un corriere espresso perché può trasportare merce contraffatta. Come anche, grazie ai “dovrebbe comunitari” che consentono di “invadere” il terreno delle regole online, un ISP, perchè tramite la sua rete qualche utente commette degli illeciti. Sarebbe stato necessario – come peraltro si accenna (ma si nega) nella direttiva – specificare che la norma si applica solo a chi volontariamente e consapevolmente mette a disposizione servizi internet per fini illeciti.
Ma il legislatore italiano è andato ben oltre quello comunitario arrivando addirittura travisare il senso delle parole. Come ha fatto notare il comunicato di ALCEI, un esempio di uso strumentale degli errori di traduzione è la trasposizione dell’art. 6 della direttiva, che fissa le condizioni alle quali il giudice può concedere un provvedimento di urgenza in caso di violazioni. L’articolo in questione è intitolato nel testo portoghese “prova”, nel testo spagnolo “pruebas”, nel testo francesce “preuves”, nel testo tedesco “beweise”, e nel testo italiano “elementi di prova”. Ma il legislatore italiano ha preferito affidarsi al solo testo inglese che usa la parola “evidence” (che quando è definita “circumstantial” può essere intesa come “indizio”) per inserire nel testo del decreto legislativo il significato sbagliato. Così facendo è possibile ottenere provvedimenti di urgenza senza dover fornire “troppe spiegazioni” (è noto che gli “indizi” sono molto meno di una “prova”).
Lo scenario complessivo, dunque, è quello di un sistema normativo repressivo e incivile che consente di imporre ai provider (“intermediari”) di consegnare subito i dati dei propri utenti, a fronte di soggetti (le “associazioni per la tutela dei diritti”) che non devono dimostrare di essere titolari di alcunché, ma limitarsi a fornire solo qualche “indizio” del fatto che, più o meno, potrebbero avere qualche ragione da rivendicare.
Ma le cose stanno veramente così, o tutto questo è frutto di un colossale abbaglio interpretativo?
La direttiva 2004/48 va realmente letta come il frutto di una “congiura” o è semplicemente un provvedimento come un altro? In fondo, si potrebbe dire, UE e Italia sono vincolate da più di una decina d’anni al recepimento degli accordi TRIPs sulla proprietà industriale; il regime cautelare che la direttiva 2004/48 applica al diritto d’autore è identico a quello già esistente per i marchi e i brevetti, e, mio dio, questa querelle sull’uso delle parole (“indizio” invece di “prova”) è veramente di poco momento… per non parlare della responsabilità dei provider… ma insomma, alla fine loro erano già responsabili se qualcuno vendeva online prodotti contraffatti. Perché scandalizzarsi se ora si “aggiunge” anche il diritto d’autore?
Se ci fosse qualcuno così miope da sostenere cose del genere, sarebbe opportuno ricordargli che:
– marchi e brevetti sono sostanzialmente diversi da filmini e canzonette (basta pensare alle strutturali differenze fra i principi della tutela brevettuale e quelli della “paternità autoriale”,
– quindi non è affatto detto che proprietà industriale e intellettuale debbano essere regolate allo stesso modo (anzi, tutt’altro),
– almeno fino a quando la legge deve essere interpretata, le parole sono importanti. “Indizio” non è “prova” e la “prova” (“prova”, non “indizio”) è il cardine di qualsiasi ordinamento giuridico che voglia definirsi civile.
Allo stesso modo, certi giochetti verbali della direttiva e del decreto legislativo consentono – di fatto – una interpretazione estensibile fino all’inclusione dei provider. E da nessuna parte, nei testi comunitari e nazionali, è contenuta la garanzia che in qualche aula di giustizia fioriscano interpretazioni “curiose” (non sarebbe la prima, né l’ultima volta).
Morale, siamo di fronte all’ennesimo caso di legge particolare e concreta (altro che “generale” e “astratta”). Uno sport, di questi tempi, molto, molto praticato.
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