Lo schema tradizionale della legge sul diritto d’autore è oramai inadatto a tutelare musicisti e nuove forme di creazione sonora, mentre ha accentuato lo squilibrio a favore di chi – raramente l’autore – detiene i diritti di sfruttamento economico delle opere di Andrea Monti – Audioreview marzo 2017
In principio fu il diritto dell’autore: un paio di secoli fa circa, il giurista francese Augustin-Charles Renouard propose di considerare la creazione artistica come “emanazione” dell’autore e non come oggetto di “proprietà letteraria”. La differenza è sottile ma rilevante, perché dall’idea di Renouard deriva la possibilità di concepire in capo all’autore, oltre all’esistenza dei diritti sfruttamento economico, anche quelli morali, come il diritto alla paternità dell’opera o all’inedito.
Questa impostazione ha funzionato, più o meno bene, fino a quando il “mestiere” di artista – e di musicista, per quanto ci riguarda – era praticato da un numero abbastanza ristretto di persone e fino a quando gli strumenti per la creazione musicale erano abbastanza limitati.
Il mondo musicale cambia – ma la legge non se ne accorge – nel 1979 con l’arrivo del Fairlight CMI. Questo Sampler/Synth, i cui primi utilizzi in ambito internazionale risalgono al 1980 (Never for Ever di Kate Bush) e al 1983 in Italia (Riccardo Zappa) apre la strada a forme alternative di creazione basate sul riutilizzo e sulla ricombinazione di “pezzi”, i “campioni” appunto, tratti da altre opere. In quel momento si apre un crepa nel muro del diritto d’autore che nessuno sarebbe riuscito a chiudere e della quale pochi – nel “salotto buono” della produzione musicale – avevano capito l’importanza.
Ma andiamo con ordine.
L’impostazione ideologica della normativa sul diritto d’autore mette in cima l’interesse dell’artista. A lui spettano i diritti morali (quelle prerogative di cui ho parlato all’inizio e che non si possono cedere, nemmeno volendo) e i diritti patrimoniali, cioè quelli di guadagnare vendendo o “affittando” a un editore la possibilità di commercializzare le opere nella forma della partitura scritta.
L’avvento delle tecnologie per la registrazione dell’esecuzione musicale su supporto durevole (fare dischi, in altre parole) ha indotto il legislatore a includere nella normativa anche i “diritti connessi che tutelano i produttori dei “fonogrammi”, gli esecutori e gli interpreti.
Dunque, le case discografiche acquisiscono un diritto autonomo sul “master”, che è un diritto diverso da quello che spetta al creatore del pezzo. Analogamente, gli esecutori e gli interpreti – pensiamo a un’orchestra che esegue una composizione altrui – acquisiscono un diritto distinto e separato da quello di chi ha concepito originariamente la musica.
Benché in termini legali i rapporti di forza siano sempre a favore degli autori, dal punto di vista economico questa evoluzione tecnologica ha cambiato gli equilibri fra i soggetti in campo.
La creazione di un master – compito del “produttore di fonogrammi”, come lo chiama la legge – è un’attività estremamente complessa, che incide non solo sulla qualità finale della registrazione, ma sul valore estetico stesso dell’opera. In certi casi non è assurdo affermare che il sound engineer contribuisce quanto – e più – dell’autore al successo del pezzo.
E che dire della differenza nell’esecuzione della stessa composizione da parte di musicisti diversi?
Ma soprattutto: che senso avrebbe investire in una esecuzione impeccabile, perfettamente registrata, se poi non è possibile “rientrare” dei costi, tramite la vendita dei supporti (o dei file, nel caso della musica liquida)?
E’ chiaro che, alla luce di queste considerazioni, sul palcoscenico dei diritti quello dell’autore diventa un comprimario. Soprattutto perché una volta ceduti i diritti patrimoniali alla casa discografica, dal punto di vista legale il musicista esce – letteralmente – di scena.
Sarebbe quindi più coerente con la trasformazione dell’opera creativa in prodotto industriale – perché di questo stiamo parlando – parlare di “diritto del produttore/sfruttatore economico” quale diritto principale e considerare quello dell’autore come diritto secondario.
Questa affermazione non è paradossale come sembra.
La trasformazione della musica da atto creativo in “prodotto da banco” è un fatto indiscutibile. Senza entrare in considerazioni estetiche sulla qualità di ciò che si vende oggi con l’etichetta di “musica”, è intuitivo che, come non ci sono abbastanza vigne in Toscana per produrre tutto il Chianti venduto come tale, gran parte della musica oggi in commercio è prodotta con regole ferree, nelle quali la “creatività” è veramente opzionale.
Come nel mondo farmaceutico esistono i farmaci “anch’io” (me too) – se una casa produce un’antinfiammatorio, i suoi concorrenti reagiscono con un medicamento analogo – quando “esce” un “nuovo” artista, il mondo dell’industria musicale reagisce lanciando “artisti me too”. Oppure quando è passato abbastanza tempo dalla scomparsa di un musicista iconico, l’industria musicale si attiva per trovare un sostituto (sono l’unico ad avere scambiato i pezzi degli Audio 2 per quelli di Battisti, o la voce di Mario Biondi per quella di Barry White?).
E mentre aspettiamo l’incoronazione del novello Prince o dell’erede di Amy Winehouse, rimane ancora aperta la breccia aperta, una trentina di anni fa, dal Fairlight.
La diffusione capillare degli strumenti di creazione musicale e la possibilità di campionare qualsiasi cosa mettono in crisi la filiera concettuale su cui è basata la normativa sul diritto d’autore. Non c’è più l’artista che compone un’opera, concede all’editore il diritto di stampare la partitura che, poi, viene eseguita da un’orchestra in un teatro e infine registrata e venduta.
Campionamenti e mash-up sono forme di creazione musicale che si basano sulla disarticolazione dell’espressione musicale e sulla sua ricostruzione in qualcosa di diverso. Sono a tutti gli effetti delle attività indistinguibili (a prescindere dal loro valore estetico) dalla composizione di un pezzo eseguita stando seduti al pianoforte. Sono manifestazioni dell’ingegno che hanno il diritto di essere tutelate.
Ma, e qui arrivano contemporaneamente il paradosso e la prova dell’insufficienza dell’attuale impostazione ideologica del diritto d’autore, utilizzare campioni di opere altrui è possibile solo con l’autorizzazione del titolare dei diritti di sfruttamento economico (cioè, nella maggioranza dei casi) delle casa discografica. Di conseguenza, se voglio creare usando dei campioni o posso permettermi di pagare i diritti, oppure devo rinunciare alla manifestazione della mia creatività. Oppure, devo violare la legge, utilizzando senza “licenza” i frammenti di opere altrui.
Di fronte a queste opzioni, è evidente che è fattualmente stonato il ritornello secondo il quale la tutela del diritto d’autore è finalizzata a incentivare la creatività. Ed è altrettanto evidente che per garantire la possibilità di espressione artistica a tutti i musicisti, non solo a quelli iscritti alla SIAE, ma anche a quelli che non ne fanno e non ne vogliono far parte, è necessario adattare ai tempi – economici e tecnologici – una normativa pensata quando gli uomini portavano le parrucche.
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