di Andrea Monti – PC Professionale n. 120
Con la sentenza n. 4741/2000 la V Sezione Penale della Corte di cassazione ha fissato alcuni punti fermi nell’individuazione del giudice competente per gli illeciti commessi tramite la rete.
Il caso specifico riguarda una presunta diffamazione commessa tramite la pubblicazione di pagine web su un sito estero. Fatto che i giudici hanno stabilito essere comunque assoggettato alla legge italiana perché, l’articolo 6 comma II del Codice penale… stabilisce che il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando su di esso si sia verificata, in tutto, ma anche in parte, l’azione o l’omissione, ovvero l’evento che ne sia conseguenza. La cosiddetta teoria della ubiquità, dunque, consente al giudice italiano di conoscere del fatto-reato, tanto nel caso in cui sul territorio nazionale si sia verificata la condotta, quanto in quello in cui su di esso si sia verificato l’evento. Pertanto, nel caso di un iter criminis iniziato all’estero e conclusosi (con l’evento) nel nostro Paese, sussiste la potestà punitiva dello Stato italiano.
Questa conclusione non vale soltanto per il reato di diffamazione, ma anche per tutti i computer crime (accesso abusivo, diffusione di virus, danneggiamento informatico ecc.). Che qualche ingenuo – convinto che “tanto il server è all’estero” – pensa ancora di poter commettere nella più totale impuntità.
Va tuttavia segnalato che di questa sentenza sono state fornite interpretazioni tecnicamente sbagliate, come quella secondo la quale sarebbe ora possibile “oscurare” i siti esteri.
La sentenza non lo dice da nessuna parte. Si limita a rilevare che la localizzazione delle macchine è irrilevante ai fini dell’individuazione di responsabilità, che è una cosa ben diversa.
In altri termini, per tornare al caso della diffamazione, la Cassazione ha stabilito soltanto che un italiano autore di dichiarazioni offensive i cui effetti si producono in Italia può essere processato nel nostro paese, che gli può essere ingiunto di rimuovere i contenuti contestati e quant’altro. Ma da questo non deriva la possibilità di “intromettersi” nella sovranità dei paesi dove operano, ad esempio, provider o fornitori di hosting.
Un altro ragionamento molto interessante riguarda l’individuazione degli effetti giuridici della pubblicazione di pagine web. Che in passato si volevano assimilate all’emittenza radiotelevisiva o alla pubblicazione di testate giornalistiche. Secondo questo orientamento, basterebbe il solo upload delle pagine “incriminate” per commettere un atto illecito, Più o meno come accadrebbe “mandando a quel paese” il proprio nemico nel corso di una trasmissione radiofonica o televisiva.
Distinguendo invece correttamente le modalità di comunicazione proprie dei mezzi tradizionali (legate all’istantaneità della diffusione dei contenuti) da quelle caratteristiche della rete, i giudici scrivono: …in un primo momento, si avrà l’inserimento «in rete», da parte dell’agente, degli scritti offensivi e/o delle immagini denigratorie, e, solo in un secondo momento (a distanza di secondi, minuti, ore, giorni ecc.), i terzi, connettendosi con il «sito» e percependo il messaggio, consentiranno la verificazione dell’evento. Tanto ciò è vero, che, nel caso in esame sono ben immaginabili sia il tentativo (l’evento non si verifica perché, in ipotesi, per una qualsiasi ragione, nessuno «visita» quel «sito»), sia il reato impossibile (l’azione è inidonea, perché, ad esempio, l’agente fa uso di uno strumento difettoso, che solo apparentemente gli consente l’accesso ad uno spazio web, mentre in realtà il suo messaggio non è masi stato immesso «in rete»).
Nell’ambito di una motivazione molto corposa, la Cassazione trova anche il modo per “entrare” sul tema delicato della responsabilità del provider per gli atti commessi dai propri utenti. La sentenza dice chiaramente – a proposito dell’ISP – che, fatta salva la ipotesi di concorso nel reato, quest’ultimo non è responsabile del contenuto dei messaggi trasmessi.
Un’affermazione di principio molto importante, dato che sempre più spesso si tende a “scaricare” sul fornitore di servizi (vedi la direttiva 31/00 sul commercio elettronico) obblighi e responsabilità che non possono competergli.
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