Le polemiche innescate dalle dichiarazioni di alcune ginnaste italiane sugli abusi alle quali sarebbero state sottoposte nel corso degli allentamenti gettano una luce – pur tenue – sul “dietro le quinte” del mondo dello sport. Non entro nel merito della questione specifica che riguarda la ginnastica; ci sono indagini in corso alla fine delle quali verranno accertati fatti e, se ci sono, responsabilità. In termini più generali, invece, vale la pena di fare qualche riflessione su cosa è diventato, oggi, lo sport e di come il mondo dell’intrattenimento anche online stia profondamente cambiando il ruolo dell’atleta – di Andrea Monti – Inizialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech.
È un dato di esperienza indiscutibile – ne parlo a ragion veduta, avendone cognizione di causa diretta come atleta, allenatore e come docente universitario – che lo sport giovanile italiano è tenuto in piedi da un numero enorme di persone che per pura passione dedicano tempo e risorse a rendere i ragazzi delle persone migliori.
Tantissimi di questi allenatori rimarranno dei perfetti sconosciuti, tranne per chi ha avuto la possibilità di imparare da loro, e che – a distanza di decenni – ancora ne parla con affetto e riconoscenza. Non per questo sono meno bravi o importanti nel sistema sportivo di quelli che “fanno carriera”. Qualcuno di loro ha la fortuna di incontrare l’atleta talentuoso al quale applicare il proprio metodo di allenamento e salire nei ranghi federali, oppure ha la capacità di costruire una “scuola” dove praticare al meglio una certa disciplina e diventare un punto di riferimento per chiunque voglia praticarla (non è un caso che tanti valenti schermidori arrivino dalle Marche). È l’avvio di un percorso che, presto o tardi, conduce alla necessità di spingere gli atleti verso i loro limiti fisici, psicologici ed emotivi. Bisognerebbe dunque chiedersi se ci sono e quali sono i meccanismi di salvaguardia per chi si imbarca in un viaggio entusiasmante ma anche pericoloso.
Partiamo da una considerazione fattuale: il mondo dello sport protegge se stesso e la propria esistenza. Il Codice di giustizia sportiva, quello che si applica trasversalmente a tutte le federazioni sportive nazionali che fanno parte del CONI sanziona i comportamenti di atleti, tecnici, medici sportivi e dirigenti che compromettono il regolare svolgimento delle manifestazioni sportive e, indirettamente, tutto ciò che ruota attorno al mondo dei Cinque Cerchi. L’articolo 4 del Codice di giustizia sportiva del CONI, infatti, dice chiaramente che gli organi di giustizia decidono circa “l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive”. Tutto il resto è secondario.
Il caso di Caster Semenya, troppo presto dimenticato, è l’archetipo della gerarchia di priorità che caratterizzano il settore. Grazie a un corredo genetico fuori dal comune (Iperandrogenismo), l’atleta sudafricana era in grado di produrre una quantità di testosterone superiore a quanto normalmente accade nelle donne. Oltre a consentirle prestazioni sportive di livello eccezionale, l’Iperandrogenismo aveva anche condizionato la sua apparenza fisica conferendole tratti mascolini. Alcuni dirigenti sportivi misero addirittura in dubbio il fatto che fosse una donna e lei, appena diventata maggiorenne, si rese disponibile a mostrare loro i genitali. Oltre all’insulto, nel 2019 arrivò un’incredibile decisione della federazione mondiale di atletica (confermata dalla Corte arbitrale dello sport e poi, nel 2020, anche in appello) che, in nome del “fair play” impose alle atlete “affette” da Iperandrogenia di assumere terapie ormonali per ridurre i livelli naturalmente prodotti di testosterone. In altri termini, pur di mantenere la “correttezza” della competizione fra le donne, i vertici internazionali della giustizia sportiva decisero che atlete particolarmente dotate dovessero sottoporsi a trattamenti medici non dipendenti da uno stato patologico. Le atlete dovevano essere “curate” perché erano dei “freak” —dei fenomeni. Eppure, nessuno ha mai chiesto a un giocatore di basket troppo alto di segarsi le gambe, o a un pugile che colpisce troppo forte di rompersi il “destro” prima di salire sul ring. Curiosamente, detto per inciso, i vari movimenti “antidiscriminazione” tanto attenti ai generi delle parole, non si occuparono in modo particolare di questa vicenda che pure, qualche eco internazionale ha avuto, relativa alla vita e alla dignità di una persona vera e non a un post su un social network.
Sia come sia, la ragione dell’incredibile verdetto – del tutto equivalente all’avere ordinato una castrazione chimica – è proprio la necessità di fare in modo che le competizioni siano “combattute” e non dall’esito praticamente scontato per via della presenza del monstrum.
Considerato, tuttavia, che fin dai primi livelli della formazione degli istruttori sportivi e poi degli allenatori viene enfatizzata l’importanza di spiegare ai (giovani) atleti che la competizione è con se stessi e non “contro” qualcun altro, la scelta degli organi internazionali di giustizia sportiva si spiega più come la necessità di garantire incertezza, cioè “spettacolo” per il pubblico. Nessuno sponsor investirebbe somme rilevanti su manifestazioni che non attirano spettatori e non producono “storie”, gare vinte o perse all’ultimo secondo, drammi da “getto del cuore oltre l’ostacolo” e via discorrendo.
La subordinazione degli eventi sportivi alla loro capacità di essere intrattenimento (da qui, la complessa tematica dei diritti audiovisivi sportivi e del loro sfruttamento sulle nuove piattaforme, come quelle basate sul metaverso) ha un riflesso diretto sulla vita dell’atleta. Escludendo gli amatori “puri”, che si “accontentano” di competere anche a livello nazionale ma senza poter aspirare a posizioni di vertice o all’ingresso nelle squadre che competono agli Europei, ai Mondiali e alle Olimpiadi, i “dilettanti-professionisti”, come gli appartenenti ai gruppi sportivi militari, hanno un solo obiettivo: la medaglia. Certo, non è detto che il bersaglio venga sempre raggiunto ma l’atleta deve fare di tutto per provarci. In altri termini, deve allenarsi allo spasimo per superare i propri limiti. Ma, e arriviamo al punto, chi decide quali sono questi limiti, come si superano ma soprattutto, a quale costo?
Allenare un atleta di vertice è estremamente difficile. Da un lato bisogna capire come migliorarne le prestazioni anche spingendolo a liberarsi di limitazioni psicologiche e abitudini caratteriali; dall’altro bisogna sempre mantenersi in una zona di rispetto per evitare di far danni alla sua psiche prima ancora che al suo corpo. Con un atleta adulto e maturo determinate scelte in termini di sacrifici “alla Rocky” si possono condividere e assumere consapevolmente, ma nei confronti di ragazzini e adolescenti il discorso è totalmente diverso.
Il rapporto fra allenatore e atleta di giovane età è fortemente squilibrato e le famiglie dovrebbero essere non solo informate, ma parte attiva della carriera sportiva dei figli. Questo non significa trasformare mamme e padri in “aiuto-allenatori” (anche se in diversi casi i genitori lo diventano) ma renderli consapevoli di quali metodi di allenamento saranno utilizzati sui ragazzi e delle conseguenze di questa scelta. È vero che un allenatore può applicare sistemi particolarmente intensi che potrebbero arrivare anche ad essere percepiti come crudeli. Ma, questo, non al punto di esautorare dalla potestà genitoriale e dunque del potere/dovere di dire “no”.
Da qui, le domande: è veramente “libera” e “consapevole” la decisione di un dodicenne di vivere in condizioni ambientali che ricordano quelle dei corpi speciali delle forze armate? Che fine hanno fatto i principi di tutela dell’integrità psicofisica del minore e di rispetto della persona? Sono “solo” l’allenatore – o la federazione – a spingere un ragazzino a sacrificare una parte fondamentale della vita in una palestra?
Non è possibile dare una risposta generale a queste domande perché ogni caso fa storia a sé. Possono esserci allenatori frustrati, incompetenti o, peggio, criminali, che pur di fare carriera non si preoccupano di “rompere” gli atleti che vengono loro affidati o di abusarne e famiglie che, contando sul “bambino prodigio” per risolvere i propri problemi di sopravvivenza o di scalata sociale, “fanno finta di niente” di fronte a situazioni che richiederebbero un intervento immediato. Si possono incontrare atleti sinceramente motivati a superare i propri limiti e disposti ad allenamenti di inusuale durezza, e altri che, consapevoli di non riuscirci, scaricano colpe e responsabilità (a volte infamanti) sui tecnici ai quali si sono rivolti. La fame di successo o di denaro può spingere ad accordi sottobanco, frodi sportive e azioni inconfessabili come l’assunzione di droghe o combine per lucrare sulle scommesse.
Solo una giustizia sportiva efficiente potrebbe funzionare, prevenendo e, quando fosse il caso, sanzionando duramente azioni che danneggiano gli atleti. Prima ancora della magistratura ordinaria, infatti, gli inquirenti e i decisori sportivi sono quelli che per primi entrano in contatto con il “lato oscuro” dello sport. Tuttavia, come detto, l’obiettivo primario della giustizia sportiva è proteggere il “grande gioco”, non il singolo atleta. Inoltre nella “giustizia interna” dello sport inquirenti e decisori non sono magistrati anche se si chiamano “procuratori” e “giudici” e sono scelti direttamente dalle singole federazioni. Sarebbe come se la magistratura “vera” invece di essere indipendente fosse nominata dal Parlamento o dal Presidente del Consiglio e dunque soggetta a controlli dei soggetti che deve controllare. Questo non significa necessariamente che la giustizia sportiva sia inaffidabile o che inquirenti e decisori commettano a loro volta abusi. Tuttavia, la garanzia di serietà dei singoli procedimenti e della scelta di avviarli o meno dipendono più dalle capacità dei singoli professionisti coinvolti che dal modo in cui è stata progettata l’architettura del sistema.
La spettacolarizzazione dello sport sta raggiungendo nuovi livelli per via della progressiva confusione fra evento fisico e sua gamificazione e di conseguenza crescerà la pressione per creare sempre nuovi “gladiatori” che si confrontano nell’arena per intrattenere le folle nei modi più estremi, come già anticipò nel 1975 il distopico James Caan di Rollerball. In questo scenario, tutelare gli atleti in una fase della loro vita nella quale sono meno strutturati per comprendere quello che sta accadendo loro dovrebbe essere una priorità per il Comitato Olimpico Internazionale, per il CONI e per le federazioni sportive nazionali. All’istituzione di “garanti” e altri ruoli di supervisione dovrebbe essere affiancata una profonda riforma del sistema della giustizia sportiva che, oltre al “fair play”, attribuisca un ruolo centrale alla tutela dell’integrità psico-fisica dell’atleta anche a scapito del risultato in competizione.
D’altra parte, l’importante non è vincere, ma partecipare.
Oppure no?
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