Prima della liquefazione della musica – orridi MP3 compresi – nessuno si è mai posto realmente il problema di rispondere alla domanda “di chi è la musica che compro?”. E la risposta potrebbe non essere quella che ci si aspetterebbe…
di Andrea Monti – Le regole della musica – Audioreview gennaio 20171
Prima della possibilità di ascoltare musica liquida, nessuno si poneva realmente il problema di rispondere alla domanda “di chi è la musica che compro?”. Era (ed è) intuitivo pensare che se in cambio di un qualcosa consegnavo dei soldi, quel qualcosa era (è) “mio” a tutti gli effetti. Dunque, una volta usciti dal negozio con il vinile sottobraccio, Fireball, Atom Heart Mother, Physical Graffiti e chi più ne ha, più ne metta, erano diventati nostri e guai a chi ce li toccava o metteva anche solo in dubbio il fatto che non potessimo ascoltarli nel modo che meglio preferivamo. E anche trasferire la musica dai vinili alle audiocassette non era poi così problematico (se non per il degrado di qualità del passaggio dal disco al nastro magnetico) perchè non c’erano sistemi “anticopia” che impedivano il funzionamento della piastra quando la si collegava al piatto.
Poi è arrivata la musica ibrida (digitalizzata, ma comunque “fissata” su un supporto) e le cose hanno cominciato a complicarsi.
I CD potevano essere ascoltati – copiati – tramite i computer e questo alle ai detentori dei diritti non andava certo bene. Con la scusa di “combattere la pirateria”, dunque, le case discografiche (o chi per loro) cominciarono a utilizzare dei sistemi anticopia che bloccavano la possibilità di duplicare un CD “originale”, a prescindere dal fatto che la persona fosse o meno il legittimo “proprietario” del supporto.
Questi sistemi anticopia vanno sotto il nome di DRM (Digital Right Management – gestione dei diritti digitali o, meglio, gestione digitale dei diritti), una sigla che sintetizza l’insieme delle tecnologie per controllare dove, come, quando e con che cosa viene riprodotto un file (musicale).
Le prime avvisaglie dei problemi legati ai DRM risalgono al 2005 quanto, tanto per fare un esempio, un produttore di antivirus rilevò in un CD di Van Zant prodotto dalla Sony BMG Entertainement la presenza di un software per il controllo dei diritti che aveva le caratteristiche di un virus. Si installava “a tradimento”, non era facile da rimuovere, si annidava invisibilmente nel PC consentendo anche ad altri virus di fare danni. Quando l’inganno venne scoperto, la Sony BMG Entertainement rilasciò una patch che (diceva) avrebbe “risolto il problema”. Così riconoscendo di aver commesso un abuso ai danni di chi, in buona fede, acquistava i suoi prodotti. Che, incredibilmente, doveva comunque chiedere il permesso alla multinazionale dell’intrattenimento per disinstallare il sistema di controllo e rientrare in possesso pieno del proprio computer.
L’ultima evoluzione – non ancora terminata – è quella della musica liquida, con gli orridi MP3 prima, e dopo con i formati lossless, accompagnati da sorgenti in grado di riprodurre anche file campionati a un livello tale da rivaleggiare con i master dello studio di registrazione.
La liquefazione del suono ha portato con sè molte novità per gli appassionati di musica in termini di comodità di ascolto, qualità delle registrazioni e scoperta di nuovi artisti. Ma le innovazioni non sono tutte positive, e l’applicazione alla musica liquida della legge sul diritto d’autore ha creato un groviglio di problemi ancora più intricato di quelli che affliggevano la musica ibrida, e che pregiudicano ancora di più i diritti dei musicofili senza riuscire a contrastare efficacemente gli utilizzi non leciti di registrazioni e dischi.
L’evoluzione dei DRM – andata di pari passo con normative nazionali e comunitarie che li hanno potenziati – ha fatto si che i detentori dei diritti d’autore potessero estendere illimitatamente la portata e l’ampiezza del loro controllo sugli utenti. Non c’è più bisogno di inserire sistemi fisici che bloccano il dialogo fra sorgente e registratore, perchè basta inserire appositi “blocchi” nei software che leggono ed eseguono i file musicali.
Per capire l’ampiezza e la pericolosità del fenomeno basta guardare a cosa è successo nel mare dei libri liquidi – e in particolare a quelli dell’ecosistema Kindle. Amazon sa sempre cosa stiamo leggendo e gestisce in totale autonomia il contenuto degli ebook reader, così, nel 2009, cancellò a distanza due libri di George Orwell (1984 e Animal Farm) per questioni legate all’assenza di diritti di pubblicazione in capo all’editore. L’azione sarà stata anche giustificata, ma non per questo è meno preoccupante. E’ anche vero che dopo un iniziale uso dei DRM la Apple – cui va certamente il merito di avere creato il mercato legale della musica liquida – ha smesso di utilizzarli, ma questo non cambia i termini della questione perchè la libertà degli utenti che pagano per ascoltare la musica dipende dalle scelte di marketing delle aziende e non da un loro buon diritto.
Come è possibile tutto questo? Semplice: la musica (liquida) che acquistiamo non è di nostra proprietà ma ci viene concessa in mero e precario uso dai detentori dei diritti.
Secondo la legge sul diritto d’autore, infatti, la musica che acquistiamo non ci appartiene come, il più delle volte, non è appartiene nemmeno all’artista che la ha composta o eseguita perché è di proprietà esclusiva dell’etichetta discografica o di altri componeti della filiera di produzione. Di conseguenza, al “cliente” spetta soltanto un diritto (revocabile in qualsiasi momento da parte dell’etichetta) di ascoltare ciò che è contenuto nel supporto (vinile, cassetta, CD) e fino a quando il supporto rimane integro. E se il supporto si rompe – o diventa obsoleto, per cui non ci sono più sorgenti in grado di leggerlo – si perde contemporaneamente il diritto di ascolto senza nemmeno avere indietro i soldi spesi.
Se questo ragionamento aveva un valore puramente astratto nel mondo della musica solida – o meglio, analogica – dove era sempre possibile farsi le copie su nastro dei dischi e dove la “revoca” del diritto di ascoltare un disco era sostanzialmente impossibile, come abbiamo visto le cose cambiano con la musica ibrida (tracce digitali memorizzate su supporto fisico, tipo CD) e poi con quella liquida (tracce fruibili indipendentemente dal supporto). Dunque, la musica liquida è “nostra” solo da un punto di vista emotivo, perché per la legge ci è solo data in affitto.
Non tutte le case discografiche utilizzano i DRM per proteggere la “loro” musica liquida, perchè scommettono – giustamente – sulla correttezza dei loro clienti (ma è giusto considerarli “soltanto” tali?). E’ un approccio ragionevole perché chi apprezza un artista, ha l’interesse che continui a produrre le sue opere e dunque ritiene giusto pagare pur potendo scaricare “gratis” il file.
Dovendo scegliere un approdo nel mare della musica liquida, dunque, meglio scegliere un porto che issa la bandiera della libertà.
- Dal numero di gennaio 2017, Audioreview, la più autorevole rivista italiana di HI FI ospita una mia rubrica dal titolo “Le regole della musica”. Questo è il primo articolo pubblicato. ↩
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