Le fotografie appartengono al fotografo, e il “fotografato” non può usare liberamente la propria immagine. E non c’è “legge sulla privacy” che tenga
di Andrea Monti -PC Professionale n. 197 – dicembre 2017
Il caso (apparentemente) paradossale: lo scorso giugno 2017 il cantante pop Bruno Mars ha pubblicato su un social media una foto di quando, nel 1989, aveva tre o quattro anni e lavorava come mini imitatore di Elvis Presley.
Peccato che la fotografia non era sua perchè la proprietà spetta – per legge – al fotografo che la ha scattata e la pubblicazione è avvenuta senza l’autorizzazione del titolare dei diritti. Conseguenza: il fotografo in questione ha richiesto all’artista e alla casa discografica Warner Music il pagamento dei diritti d’autore.
Per quanto paradossale, se i fatti stanno effettivamente come sono stati riportati dai mezzi di informazione, ci sono pochi margini di manovra per l’artista. E la situazione sarebbe stata ancora più difficile da gestire se l’evento si fosse verificato in Europa o – meglio – in Italia.
La legge sul diritto d’autore, infatti, stabilisce il principio che la fotografia – incluso il ritratto – appartiene a chi la scatta e non al soggetto. E questo vale anche nei casi, stabiliti dalla legge, nei quali la fotografia è scattata all’aperto, nel corso di eventi pubblici o di una qualche rilevanza.
La conseguenza è che chi è stato fotografato conserva il diritto alla tutela della propria dignità (e quindi il fotografo deve usare l’immagine in modo rispettoso e non offensivo) ma non ha alcun diritto economico nè alcun controllo sulla circolazione dello scatto.
Come i nativi americani temevano di essere fotografati perché pensavano che l’immagine avrebbe rubato loro l’anima, oggi qualcuno potrebbe invocare la “legge sulla privacy” per rivendicare – dal punto di vista del fotografo si direbbe “espropriare” – il diritto di conservare il controllo sul proprio clone digitale.
In realtà non è così.
Innanzi tutto, la privacy non c’entra e per due motivi.
Primo, perché come ha più volte affermato la Corte di cassazione, negli spazi pubblici non c’è privacy che tenga. A maggior ragione, aggiungo, se il soggetto si è prestato ad essere fotografato.
Secondo, perché quella che normalmente è chiamata “legge sulla privacy” in realtà disciplina soltanto il trattamento dei dati personali. Cioè il modo in cui devono essere “maneggiate” le informazioni che ci riguardano.
Ora, la normativa sul trattamento dei dati personali stabilisce il principio che tutto ciò che viene fatto nell’ambito di un diritto garantito dalla legge è lecito, anche senza il consenso della persona interessata.
La poprietà della fotografia – e dunque anche del ritratto – sono regolate per legge, dunque anche sotto il profilo della normativa in questione, chi è stato fotografato non può vantare nessun controllo sull’immagine.
Ma non finisce qui.
La legge sul diritto d’autore stabilisce che – come per il software – utilizzare abusivamente un’immagine è un illecito penale perseguibile d’ufficio. Questo significa che, a prescindere dalla denuncia del fotografo titolare dei diritti, la Procura della Repubblica è obbligata ad iniziare un’indagine. Che non riguarda solo chi ha pubblicato abusivamente la fotografia, ma anche chi si avvantaggia dalla pubblicazione. Cioè, nel caso di Bruno Mars, anche l’etichetta discografica.
E qui le cose si complicano ulteriormente, perché per via di un’altra legge, quella sulla responsabilità penale delle imprese, se l’etichetta discografica si è avvantaggiata dalla pubblicazione dell’immagine, potrebbe subire un ulteriore procedimento penale.
Come se non bastasse, sulla base di un discutibile e criticato regolamento – ma ancora in vigore – l’Autorità per le comunicazioni potrebbe disporre l’oscuramento della pagina che ospita la fotografia illecitamente riprodotta.
Questo scenario è realmente “virtuale” nel senso che i fatti in questione – ripeto, se si sono svolti come riportato – non sono sottoposti alla legge italiana.
Ciononostante, la vicenda di Bruno Mars è l’ennesima dimostrazione di quanto – in un ecosistema digitale – sia complicato trovare un bilanciamento fra diritti contrapposti.
Purtroppo non esiste un criterio per stabilire astrattamente dove finisce il diritto d’autore e dove comincia quello alla protezione dei dati personali, e dunque soltanto le sentenze della magistratura potranno dare dei riferimenti precisi a chi opera online.
Ma – con i tempi della giustizia – ci vorranno anni per avere dei verdetti assennati e, nel frattempo, cittadini e imprese navigheranno online sballottati come il guscio di noce nel mare in tempesta.
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