Computer Programming n.ro 49 del 01-10-97
di Andrea Monti
Qualche settimana fa ho acquistato uno scanner.
Approfittando di una promozione prendo anche un software OCR molto titolato ma, essendo da poco passato (ahimè!) a windows95 mi preoccupo di chiedere al negoziante se il pacchetto che stavo acquistando fosse pienamente supportato dal sistema operativo.
Verifichiamo insieme che sulla scatola (sigillata) c’è scritto che il programma gira sia sotto win3.11 che sotto win95. Tutto a posto quindi… e invece no.
Al momento dell’installazione scopro in successione e a prezzo di notevoli perdite di tempo, che il software per funzionare richiede i driver a 16 bit (non era scritto da nessuna parte), che sotto win95 oltre a non essere disponibile una certa funzione, il programma va in crash due volte su tre e, dulcis in fundo, che la release non era quella indicata sulla confezione (consegnatami SIGILLATA) e sui dischetti… La disponibilità del negoziante mi ha consentito di risolvere una parte dei problemi, ma quando chiamo il numero verde della casa produttrice per ottenere spiegazioni mi sento dare un numero internazionale per contattare il supporto tecnico. Altrimenti, dice l’addetta (molto cortese, ad onor del vero) mi conviene attendere la release per windows95.
Oltre al danno anche la beffa.
La disavventura che mi è capitata non è affatto un avvenimento isolato o raro, tutt’altro, è la dimostrazione concreta di quanto “valga” il cliente – fatti i distinguo di prammatica – per il mercato dell’informatica.
Ci sono voluti tempo (parecchio) e l’Europa per offrire tutela anche a categorie sociali di regola mai prese in considerazione o addirittura venutesi a creare relativamente di recente.
Il “consumatore” è certamente una di queste.
La necessità di un minimo di protezione è sentita un po’ in tutti i campi, ma in informatica ciò assume un’importanza particolare.
Del resto, senza andare troppo lontano, il fatto che la stragrande maggioranza delle licenze d’uso attualmente concesse dalle software-house siano irregolari oltre ad imporre condizioni spesso molto pesanti senza poterle negoziare è oramai – almeno per i lettori di questa rubrica – un dato acquisito.
Così come è una dato acquisito che molto spesso l’acquisto di hardware si trasforma come dicevo poc’anzi in un vero e proprio calvario fra le incompatibilità reciproche dei vari componenti e l’assenza non dichiarata dal produttore o dal venditore, del supporto per questo o quel sistema operativo.
Limitazioni di responsabilità, scelta di un Tribunale piuttosto che di un altro, risoluzioni contrattuali o applicazione di una legge diversa da quella vigente per l’utente finale ad esempio, sono clausole, tecnicamente definite “vessatorie”, che per avere valore necessitano di essere sottoscritte appositamente: se manca questo requisito gli accordi ivi contenuti non hanno alcun effetto.
Questo tuttavia è solo un aspetto del problema.
Alcune clausole contrattuali infatti pur non essendo definibili vessatorie in senso proprio pongono di fatto il contraente in una posizione eccessivamente subordinata rispetto all’altra parte: contro questo tipo di clausole il contraente debole non ha – ma è meglio dire non aveva – nessun tipo di rimedio direttamente azionabile.
Solo grazie a complesse alchimie interpretative e con il tramite del giudice, infatti, era a volte possibile superare – comunque a caro prezzo – ostacoli di questo tipo.
La situazione non poteva durare ancora troppo a lungo, e infatti il recepimento (mai abbastanza tempestivo) dell’ennesima direttiva europea ha introdotto nel codice civile (con l’art.25 L.52/96) un intero capo intitolato “dei contratti con il consumatore” che affronta e risolve (meglio: tenta di risolvere) i problemi di cui sopra.
La sintesi più corretta delle innovazioni apportate alla normativa italiana è contenuta proprio nell’art. 1469 bis c. I del codice civile: “Nel contratto concluso fra il consumatore e il professionista, che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”
A scanso di equivoci è bene chiarire subito che l’ambito di applicabilità di questa legge riguarda esclusivamente i rapporti con i consumatori intesi come persone fisiche che agiscono al di fuori di attività professionali o imprenditoriali.
Il dato che va sottolineato – pur non entrando in valutazioni strettamente tecniche sta nel cambio di prospettiva nell’interpretazione del contratto.>
Nel regime previgente la vessatorietà di una clausola era individuata rigidamente dalla legge, mentre ora questo accertamento non solo è compiuto caso per caso, ma – cosa altrettanto importante – è riferito a parametri oggettivi.
Vi è di più: a parte il principio generale appena enunciato, un numero rilevante di clausole (ben venti) che vanno dal “prevedere un impegno definitivo del consumatore mentre l’esecuzione della prestazione del professionista è subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà” (n.4) al “consentire professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso” (n.11) si PRESUMONO vessatorie per legge, salvo prova contraria che grava ovviamente sul contraente forte.
Sembrerebbe – ma è da verificare – che la vessatorietà di queste clausole possa avere effetti diversi da quelli stabiliti ex artt.1341-42c.c.
In questo caso, infatti, per essere valide le clausole devono essere specificamente sottoscritte (senza entrare nel merito del loro contenuto), mentre nelle situazioni previste dalla riforma, le clausole non sarebbero comunque applicabili.
Tutto ciò può avere – con tutte le dubitative di cui sopra – effetti molto singolari sulle licenze predisposte dalle varie case e – più in generale – sui modelli contrattuali creati dalla prassi, rendendoli in alcuni casi praticamente inutili.
Già ai sensi della normativa precedente non erano certamente valide le clausole relative alla risoluzione unilaterale del contratto e alle limitazioni di garanzia, per non parlare del richiamo all’applicabilità della legge di un altro Stato: i famigerati artt.1341-42 del codice civile sono chiarissimi in proposito.
Ora sarebbe possibile far rientrare fra le clausole vessatorie – ad esempio – prescrizioni classiche inserite nella quasi totalità delle licenze d’uso come il divieto per l’utente di ottenere più di una copia di back-up del software o il divieto di installazioni multiple dello stesso pacchetto su più macchine.
Quanto al discorso delle limitazioni di responsabilità le cose sono un po’ più complesse.
La licenza d’uso OEM di un sistema operativo immesso di recente sul mercato stabilisce – peraltro in modo confuso – che il produttore del PC (non indicato sul contratto) non è responsabile in alcun modo, fra l’altro, per il danno all’integrità fisica causato dall’hardware o dal software.
Bene, in questo caso – dice la legge – quanto sopra non ha efficacia alcuna anche se è stato effettivamente oggetto di negoziazione fra le parti. Considerando il massiccio impiego dell’informatica in settori critici come trasporti o medicina questo appare assolutamente condivisibile.
Analoga sorte spetta all’imposizione di un normativa extracomunitaria come legge del contratto, anche se occorre fare attenzione: non è la stessa situazione alla quale si è fatto riferimento poco fa.
Se la scelta di una legge straniera risultasse da un atto scritto e firmato dalle parti, infatti, tutto sarebbe perfettamente regolare tant’è che le difficoltà pratiche nel funzionamento della licenza d’uso sorgono proprio dalla mancanza di sottoscrizione.
Ai sensi dell’articolo 1469 quinquies c. V, invece, “è inefficace ogni clausola contrattuale che, prevedendo l’applicabilità al contratto di una legislazione di un paese extracomunitario, abbia l’effetto di privare il consumatore della protezione assicurata dal presente articolo, laddove il contratto presenti un collegamento più stretto con il territorio di uno Stato membro dell’Unione europea.”
Anche i contratti per la fornitura di servizi telematici sono destinati a subire qualche aggiustamento.
Non tutti, infatti, sono stati abbastanza lungimiranti da strutturarsi in modo da tenere presente le numerose innovazioni imposte sempre più di frequente dalle varie normative. Così molti, oltre a doversi preoccupare della sicurezza dei dati, di nominare un responsabile del loro trattamento e di denunciare i propri archivi al Ministero dell’Interno non potranno più ad esempio cambiare a propria discrezione condizioni, caratteristiche tecniche e tariffe dell’erogazione del servizio o dell’accesso: per usufruire di questa facoltà sarà infatti necessario specificare nel contratto il giustificato motivo che impone dette modifiche, altrimenti niente da fare.
Bene, potrebbe a questo punto obiettare qualcuno, ma tutto ciò che rilevanza concreta ha?
Così come nessuno ragionevolmente si preoccuperà seriamente di andare a verificare se l’utente Tizio ha istallato 3 o 5 copie di un certo software è altrettanto ragionevole che il singolo cittadino non si imbarchi in costose liti dall’esito dubbio.
E’ una valutazione miope. Soprattutto perché l’utente possiede ora uno strumento specifico che gli consente di ottenere giustizia non solo quando il problema si è già manifestato, ma anche in via preventiva.
Alle associazioni di consumatori, fornitori e le Camere di commercio, possono convenire in giudizio chi sta adoperando clausole unfair per fare sì che, accertatane l’abusività, gli venga impedito di continuare ad usarle.
La situazione non è però così rosea come potrebbe sembrare.
La novella contiene molte inesattezze dovute ad una traduzione superficiale (una per tutte: “professionista” in italiano ha un significato ben preciso, che non si riferisce ai produttori di beni, mentre la legge accomuna in questa categoria proprio questi soggetti.) e c’è anche qualche dubbio sulla sua effettiva applicabilità alle licenze d’uso, essendo queste ultime attribuzione di un diritto d’uso e non cessione di un bene o prestazione di servizio.
Certo, se così fosse ci troveremmo di fronte una situazione veramente bizzarra, per la quale gli acquirenti di asciugacapelli riceverebbero maggior tutela degli utilizzatori di software.
Una simile interpretazione non può essere accettata perchè, ancora prima che con la logica, urta contro il buon senso.
Quello che è certo è che, per esempio, molti istituti bancari si stanno dando da fare per stipulare nuovamente i contratti con la loro clientela, mentre i programmi continuano ad essere ceduti secondo gli antichi canoni.
Sarà interessante vedere come andrà a finire.
—–
Debug
Di chi è figlio un database?
La domanda è tutt’altro che pellegrina, visto che una parte rilevante del contenzioso civile generato dall’informatica ha come oggetto l’accertamento dell’identità del creatore di un software.
Dato che il software è un’opera dell’ingegno, non diversamente da quanto accadrebbe per un libro o per un film (una parentesi: è curioso come per il cinema e la scrittura si faccia riferimento al supporto per indicare l’opera, mentre per i programmi no. Nessuno dice “ho creato un floppy”), se ne acquista la paternità per il fatto stesso di averlo creato senza nessuna ulteriore particolare certificazione.
L’autore di un programma quindi è chi lo ha realizzato, a condizione però di poterlo dimostrare, cosa non sempre possibile o agevole.
Qui nascono infatti i problemi: se è relativamente più facile provare di avere scritto una canzone o un libro, per il software le cose mutano drasticamente.
Per fare un esempio concreto, molti ricorderanno quel programmino shareware chiamato Volkov-Commander, con l’interfaccia e le funzionalità praticamente identiche a quelle di un’altra utility, ma realizzato con un linguaggio diverso…
Che fare?
Per molto tempo – in assenza di una normativa specifica – la risposta è stata affidata esclusivamente alle aule di giustizia.
La situazione è cambiata, anche se non necessariamente in meglio, dall’entrata in vigore del d.lgs. 518/92 (aka legge sul software).
Molti conoscono questa normativa solo perché ha introdotto (in modo molto discutibile, peraltro) i reati di illecita detenzione e riproduzione di software.
In realtà c’è molto altro ed in particolare – cosa che più interessa al momento – l’istituzione del registro pubblico dei programmi per elaboratore depositato presso la SIAE.
Tutti coloro che hanno realizzato un programma (autonomamente o nell’ambito di un rapporto di lavoro) hanno la possibilità, seguendo la procedura descritta più avanti, di iscrivere la propria creazione nel suddetto registro ottenendo una serie di vantaggi rispetto alla tutela del proprio lavoro. Dall’altro lato, chiunque può accedere a questo registro informatizzato per ottenere informazioni o certificazioni relative ai software depositati.
Non bisogna però cadere nell’equivoco che la semplice iscrizione nel registro (peraltro facoltativa) costituisca una prova assoluta ed invincibile della paternità dell’opera, ed infatti quanto vi è contenuto ha validità fino a prova contraria.
In sintesi l’iscrizione nel registro realizza quella che tecnicamente si chiama “pubblicità notizia” e fa fede soltanto:
dell’esistenza del programma
del fatto che è stato pubblicato
dell’identità dei soggetti che hanno richiesto l’iscrizione, che saranno ritenuti autori del software se non diversamente dimostrato.
Un altro effetto dell’iscrizione nel registro è che le pene per il reato di illecita duplicazione sono aggravate se il fatto riguarda appunto programmi recanti il marchio SIAE (per inciso, le pene per chi duplica abusivamente software sono state ulteriormente inasprite).
La procedura per ottenere la registrazione non è semplicissima e si articola in varie fasi.
Preliminarmente è necessario procurarsi una copia del software da depositare realizzata su di un supporto ottico e predisporre etichette ed eventuali marchi.
Oltre al modulo debitamente compilato è previsto infatti il deposito di questo materiale.
E’ necessario quindi presentare una richiesta presso la SIAE che contiene il nome del programma, le generalità dell’autore, quelle dell’eventuale soggetto titolare dei diritti di sfruttamento economico che ha provveduto alla pubblicazione nonché luogo e data della stessa.
I due soggetti indicati poc’anzi sono gli unici a poter richiedere la registrazione.
E inoltre possibile depositare programmi tradotti o rielaborati, anche se quello originario non era stato a sua volta depositato.
Di tutto ciò è possibile ottenere a cura della SIAE certificazion o estratti.
Il registro però non assolve esclusivamente alla funzione di documentare staticamente la “condizione anagrafica” del software, ma contiene anche la trascrizione di tutti gli atti di disposizione che il programmatore compie sulla propria creatura.
Per atto di disposizione si intende l’attribuzione della titolarità di uno o più diritti di sfruttamento economico del programma.
In conseguenza le licenze d’uso (e negozi assimilati) non sarebbero trascrivibili, poiché regolano esclusivamente le modalità di uso e non il diritto di lucrare sul programma, mentre lo sono la costituzione di usufrutto, il pegno e la divisione o società sui diritti d’autore.
Schematicamente, perché la trascrizione possa essere accettata e quindi assolvere alla sua funzione, deve contenere alcuni requisiti che sono: generalità complete e qualità (autore ecc.) del richiedente; estremi del software (compresa la data di registrazione) e, riguardo ai diritti ceduti, oltre ovviamente all’oggetto dell’atto, anche la data, tipo di atto, identità di chi lo ha rogato.
E’evidente dunque che l’interesse maggiore a servirsi del registro è costituito non tanto dalla possibilità di sapere chi sia l’autore di un programma, quanto piuttosto dal conoscere esattamente chi e quando abbia acquistato certi diritti sul programma stesso anche se questo non è possibile per tutti i programmi.
Essendo infatti facoltativa l’iscrizione, è appena il caso di ricordare che se un software non è depositato non è possibile avere le tutele di cui abbiamo parlato.
Ciò non toglie, ripeto, che non esiste alcuna relazione fra il registro pubblico dei programmi per elaboratore e l’acquisto della qualità di autore di un software.
E’ possibile dunque non ricorrere al deposito del programma presso la SIAE sena perdere i propri diritti, ma in questo caso allora come li si possono proteggere?
Risposta:realizzando di fatto delle condizioni analoghe a quelle previste per il registro.
In pratica, depositando una copia del programma da un notaio, cercando di dare massima pubblicità possibile al fatto di avere creato un certo software e così via, anche se a questo punto non ci sarebbero ragioni per non scegliere la via maestra, che è quella della SIAE.
Restano fuori da tutto questo discorso le banche dati che, a stretto rigore, programmi non sono.
Niente paura: ci sta già pensando l’Europa.
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