di Andrea Monti – Interlex n.340 – 10 febbraio 2006
Due sentenze dello stesso tribunale penale di Bolzano, emanate nei confronti dello stesso imputato per gli stessi fatti – vendita di modchip – ne affermano e negano contemporaneamente la responsabilità penale. Può sembrare incredibile ma non è certo un fatto nuovo o particolarmente strano.
La “materia del contendere” (in ambito forense) è la “natura giuridica” (sigh!) di una console da videogiochi e di conseguenza la disciplina sanzionatoria applicabile (quella dedicata al software o quella riservata alle opere audiovisive).
La sentenza emanata nel procedimento penale n. 401/05 inquadra correttamente il tema delle ingiuste limitazioni dei diritti legittimamente acquisiti dal proprietario di un elaboratore (vedi Il sistematico diprezzo dei diritti degli utenti) e sconfessa una discussa presa di posizione dell’Antitrust italiana (vedi DVD “regionalizzati: la risposta dell’Antirust).
In sintesi, dice giustamente il magistrato nell’ultima sentenza, è del tutto lecito produrre strumenti – modchip, nel caso di specie – che consentono di “smanettare” su un computer per finalità lecite. Il fatto che i modchip possano essere utilizzati anche per fini illeciti non ne rende la commercializzazione di per sé illegale (non più di quanto sia illegale vendere al pubblico barbiturici o aspirina che potenzialmente sono utilizzabili per avvelenare o uccidere).
Molto ci sarebbe da dire, invece, sulla sentenza precedente, la n. 138/05.
Scrive il giudice: si ritiene che la console sia costituita non solo da un hardware, ma anche da un software… conseguenza di ciò è che anche la console rientra nella tutela garantita dal diritto d’autore (art. 64 bis 1 comma l.d.a.).
Questa è un’affermazione priva di senso dal punto di vista tecnologico e informatico. Un computer, infatti, è innanzi tutto un’astrazione, come dimostra la Macchina di Turing, che è appunto la descrizione formale di quello che poi è stato “tradotto” in strumenti per processare informazioni – computer “generalisti”, o come nel caso della telefonia o del trasporto, “specializzati”. In questo senso, non solo la PlayStation è un computer, ma lo sono i telefonini, i GPS ecc. ecc.
Il giudice sembra invece rimasto fermo ai tempi dell’elettromeccanica, in cui il “programma” che faceva funzionare le macchine era “incorporato” nella macchina stessa (nei cavi, nei circuiti, negli interruttori e nei servomeccanismi). E da questo presupposto fa derivare quindi la conclusione che esisterebbe un qualche “vincolo pertinenziale” fra hardware e software, che estende al primo il regime giuridico del secondo. Ovviamente questo è un errore ma è tanto più difficile spiegarlo quanto più è distorto il ragionamento (da dove si comincia per spiegare a un giurista che sta commettendo un errore quando dice di essere “proprietario” di un bene acquisito in leasing?).
Analogo discorso vale per l’affermazione della sentenza secondo cui i videogiochi non sono costituiti da solo software … dato che si basano su di un programma che permette il funzionamento delle immagini, dei suoni e dei testi, ma rappresentano delle vere e proprie opere d’ingegno.
A parte il fatto che anche il software è un’opera dell’ingegno (tant’è che è tutelato dalla legge 633/41) è veramente difficile capire cosa significhi la frase in questione e in che misura renderebbe un videogioco “cosa diversa” da un software come, ad esempio, Quicktime, Powerpoint, Premiere o Photoshop (tutti programmi che permettono il funzionamento di immagini, suoni e testi… appunto).
In realtà questa enorme “forzatura” (per usare un eufemismo) è funzionale a invocare l’art. 171-ter e non l’art.171-bis LDA per poi applicare l’art. 102-quater sui divieti di elusione delle misure di protezione.
Dato e non concesso che questo ragionamento sia corretto (ma è palesemente sbagliato) la conclusione sarebbe comunque censurabile. L’art. 102-quater, infatti, non può pregiudicare i diritti legittimamente acquisiti dal licenziatario che ha sempre e comunque il diritto di eseguire una copia di riserva di quanto ha acquistato. Il diritto alla copia di riserva, infatti, si applica oltre che al software anche alle opere audiovisive.
Come già ebbe a rilevare “secoli” fa la allora pretura penale di Pescara con la sentenza 1769/97 La duplicazione serve appunto a preservare l’opera essendo, infatti, il supporto magnetico, di per sé, deteriorabile. In tal senso è la previsione dell’art. 64 ter c.II l.d.a. (633/41) introdotto dal D. Lgs. 518/92 secondo il quale: “Non può essere impedito … a chi ha diritto di usare una copia dei programma per elaboratore, di effettuare una copia di riserva…” La ratio della norma è proprio quella di garantire il titolare dei diritti dal fisiologico scadimento o dalla distruzione dei supporto magnetico sul quale il programma è duplicato.
E’ evidente che tale principio si applica anche alle videocassette che sono qualitativamente analoghe e sostituibili ai supporti utilizzati per la memorizzazione dei programmi.
Altro argomento utilizzato dal giudice nella sentenza 138/05 per affermare la responsabilità dell’imputato è che l’importazione extracomunitaria di videogiochi è vietata dalla legge (art.17 LDA). A parte il fatto che nulla vieta di comperare giochi all’estero e di riportarseli a casa, o di comprarli usati, in ogni caso, il proprietario di un PC ha il diritto di fare ciò che vuole con l’hardware acquistato anche – e non è ancora illegale – farci girare un sistema operativo come Linux.
Ma, dice il giudice, il produttore-“autore” della console ha il diritto di vietare “usi diversi” della console… forse può farlo dal punto di vista contrattuale (al più ne deriverebbe la decadenza dagli obblighi di garanzia e responsabilità) ma la cosa è penalmente irrilevante.
Quanto alle e-mail prodotte in giudizio e menzionate in sentenza… salto a piè pari le considerazioni sul modo in cui sembrano state acquisite (non è la computer forensics l’oggetto di questo articolo), ma da quanto si legge non fanno alcun riferimento esplicito a usi illegali dei modchip.
Morale… stiamo parlando veramente di una brutta sentenza. Rispettabile – anche se non condivisibile – la diversità di opinioni sull’applicazione della legge. Ma che almeno il dissenso sia basato sulla corretta cognizione della realtà fattuale.
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