Come impatta, sugli audiofili, la strategia della UE per contrastare la diffusione di contenuti illegali?
di Andrea Monti – Audioreview n.398
“In ambito europeo, si comincia a parlare sempre più spesso – le ultime notizie risalgono allo scorso otto marzo – di riformare la normativa sul diritto d’autore con la creazione di una figura denominata “online content sharing service provider” diversa da quella generica del tradizionale “internet provider” e alla quale attribuire specifiche responsabilità e doveri in materia di “lotta alla pirateria. Che cosa significa in concreto per gli utenti – e per gli audiofili – lo scopriremo sul prossimo numero.”.
Con queste parole si concludeva l’articolo pubblicato sullo scorso numero di AudioReview, e con le stesse si apre la seconda parte, che si occupa delle conseguenze pratiche di queste elucubrazioni giuridico-politiche.
Partiamo da una considerazione tecnica.
Mentre scrivo questo articolo, sto ascoltando in streaming un concerto dal vivo che Bireli Lagrene ha tenuto nel 2005 in Olanda, nel North Sea Jazz Festival. L’impianto che sto utilizzando non fa gridare alla meraviglia (un vecchio Aura VA-80 e una coppia di B&W 686 s2, con un DAC Zoom TAC-2) ma il risultato è estremamente buono. Nulla a che vedere con quelle registrazioni appiattite sui medi e mummificate dalla compressione per consentire all’audio di passare negli angusti spazi del rame dei doppini telefonici.
Ciò è possibile perché – ovviamente dando per scontato che la sorgente sia di qualità – l’aumento della banda passante delle connessioni internet (la “sezione” del “tubo” attraverso il quale scorrono i dati) e l’incremento della potenza di calcolo di apparati sempre più piccoli – come tablet e smarphone – hanno reso possibile la fruizione di contenuti audio-video di ottimo livello.
Questo significa, in altri termini, che si riduce la distanza fra la qualità di ascolto in ambienti e situazioni di vario tipo (viaggi, luoghi di lavoro ecc.), e quella che otteniamo con un impianto più o meno esoterico negli auditorium personali che ciascuno di noi faticosamente cerca di realizzare in condizioni spesso eroiche (ma questo è un altro discorso, che ci porterebbe lontano). Anzi, potremmo anche dire che nel caso in cui ci si rivolge a piattaforme che mettono a disposizione musica liquida in HD la differenza diventa ancora meno marcata.
A questo dobbiamo aggiungere il fatto che le piattaforme di user-generated content sono una risorsa importante per l’audiofilo, che grazie a loro può accedere a registrazioni (spesso ufficiali) di concerti ai quali non avrebbe mai potuto partecipare. La spinta ad utilizzare questi servizi è, dunque, molto molto forte. Ma a quali condizioni, e a quale prezzo?
E qui arriva il punto.
Da un lato le piattoforme, i cosiddetti “Over the top”, hanno interesse ad avere da un lato una gran quantità di contenuti, e dall’altro un numero altrettanto elevato di utenti – anzi, nel nostro caso, di “audenti”. Gratis i primi, perché sono prodotti e messi online da singoli individui, non paganti i secondi, perché le piattaforme monetizzano gli accessi vendendo spazi pubblicitari e profilazioni individuali degli “audenti”.
Dall’altro lato, i “titolari dei diritti” (quasi mai gli artisti, molto spesso le case discografiche) rivendicano l’esclusività del guadagno sullo sfruttamento delle loro galline dalle uova d’oro.
Questo contrasto si è tradotto in una guerra campale che dura da trent’anni, combattuta sui fronti più disparati, da quello tecnologico – con la creazione dei “sistemi anticopia” – a quello economico – con l’ottenimento dell’ingiusta “tassa sui supporti” – a quello legale, con il tentativo di far passare l’obbligo per le piattaforme di controllare i propri utenti e inibirne comportamenti “illeciti”.
Ora, benchè ci siano serissime ragioni giuridiche per le quali non è concepibile questa forma di giustizia privata e privatizzata, dove il singolo utente deve scontrarsi o contro una multinazionale dell’intrattenimento o contro una multinazionale dell’information technology, il dato di fatto è che gli utenti sono diventati zavorre e, come tali, sacrificabili sull’altare del pragmatismo commerciale.
Una piattaforma di condivisione di contenuti ha come interesse principale quello di rimanere operativa e di minimizzare il contenzioso sulla violazione del diritto d’autore. E dunque le sue scelte rispetto a contestazioni sul comportamento dei “suoi” utenti sono basate sulla minimizzazione del danno.
In altri termini, dovendo scegliere fra l’evitare una lite giudiziaria con un altro Golia e verificare le ragioni dell’utente, la piattaforma tenderà, con discrezione, verso la prima delle due opzioni. Tanto, la probabilità che, a sua volta, l’utente censurato reagisca è più bassa – e molto meno pericolosa – del contrastare la richiesta del “titolare dei diritti”.
In nome del “tutto fa business” dunque, e del “non disturbate la magistratura con queste minuzie”, il quadro normativo europeo che si profila ad un orrizzonte abbastanza vicino è tale per il quale saranno le piattaforme a decidere se, come e quando possiamo ascoltare qualcosa.
Già solo questa sarebbe una ottima ragione per continuare a comprare la musica piuttosto che “averla senza comprarla”, come promette lo spot di una casa automobilistica.
Continuando a spostare la nostra vita, non solo musicale, sulle piattaforme, potremmo trovarci un giorno con nulla sotto i piedi.
E sarà troppo tardi per tornare sulla terra ferma.
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