In un articolo che scrissi nel 2009 per Il Sole24Ore diedi conto del disegno di legge del sen. Enrico Musso per la “legalizzazione” del “clic” come forma idonea ad accettare clausole vessatorie online.
Nello specifico, evidenziavo che:
La normativa attuale prevede che le condizioni generali di contratto che contengono clausole particolarmente gravose per chi le subisce (scelta del giudice competente in caso di controversie, limitazioni di responsabilità eccetera), devono essere approvate specificamente e per iscritto. Questo obbligo di legge vale anche per i contratti a forma libera, che tuttavia, nella pratica devono essere per forza stampati su carta e firmati perché le clausole in questione siano valide. In realtà, però, la garanzia di questo meccanismo giuridico è solo formale. Basta pensare a quante volte si firma senza rendersi effettivamente conto di quello che si sta facendo. Da questo punto di vista, le cose non cambiano con l’uso della firma elettronica (peraltro poco diffusa e poco efficiente da usare).
Il ddl Musso, invece, è un vero e proprio uovo di Colombo. La procedura di acquisto di seri operatori di e-commerce – come Amazon.com, per esempio – è talmente ben strutturata e rispettosa dei diritti dell’acquirente, che è praticamente impossibile acquistare qualcosa per errore. Dunque, il procedimento tecnologico è molto più garantista del meccanismo della doppia firma, e il ddl non fa altro che prendere atto di una realtà nota al mercato già da quindici anni.
Come tanti altri, questo disegno di legge è rimasto lettera morta e la miopia di parlamento e governo hanno aumentato la distanza fra un sistema giuridico arcaico e la realtà quotidiana.
Ma dove non è arrivato un parlamento che si riempie la bocca di “innovazione”, “bandalarga” e “saibersechiuriti”, è arrivata la Corte di giustizia dell’Unione Europea che il 21 maggio 2015 ha emanato una sentenza rivoluzionaria.
Nel caso C-322/14 la Corte, quasi avesse letto il ddl Musso, ha stabilito che:
L’articolo 23, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 44/2001 del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che la procedura di accettazione mediante «clic» delle condizioni generali di un contratto di vendita, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, concluso elettronicamente, che contengano una clausola attributiva di competenza, costituisce una comunicazione elettronica che permette di registrare durevolmente tale clausola, ai sensi di tale disposizione, allorché consente di stampare e di salvare il testo di dette condizioni prima della conclusione del contratto.
Benchè la sentenza si occupi soltanto della clausola che deroga alla competenza territoriale in caso di controversie (l’onnipresente “competente in via esclusiva per ogni controversia, con espressa esclusione di ogni altro foro astrattamente configurabile, è il foro di …”) il principio di diritto espresso dalla Corte è applicabile anche a tutte le altre clausole che rientrano nella categoria delle “vessatorie” e – in generale – in tutti quei casi nei quali è necessaria l’accettazione specifica di una condizione o di una clausola.
Non ci vuole molto a capire che, facendo un altro passo, lo stesso principio vale per la prestazione del consenso al trattamento dei dati personali e a quelli sensibili, con ciò facilitando la gestione online di oneri burocratici legati al Codice dei dati personali, altrimenti di complicata e costosa “manipolazione”.
Chissà se il Garante dei dati personali sarà di avviso diverso, e sosterrà, sul punto, che è sempre necessaria la firma “di carta” o quella digitale perchè il semplice clic “non è abbastanza”. E dunque inserendo un ulteriore fattore di costo nel trattamento dematerializzato dei dati.
Accetto scommesse.
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