Da mero osservatore – e vittima – della politica odierna, e dunque dell’assenza di scrupoli dell’opposizione e della imbarazzante attività del governo rilevo che, per l’ennesima volta, la logica trasversale della gestione economica dell’emergenza si traduce in pochi soldi a tanti e dio per tutti (e una patrimoniale – anzi, una “minipatrimoniale” che fa sempre pendant).
E’ la logica dei contributi a pioggia, degli ottanta Euro, del reddito di cittadinanza e poi del reddito di emergenza e poi ancora della “iniezione di liquidità da 400 miliardi” annunciata dal Governo ma che in realtà è una enorme garanzia (“coperta” nei fatti dal risparmio privato) dei prestiti che le imprese dovranno chiedere alle banche.
Non discuto che per una fascia, purtroppo, non ristretta della popolazione sia necessario e urgente un intervento concreto per sopravvivere. Ma allora mi chiedo quale sia il senso di erogare un “reddito” (sul cui impiego non ci sarebbe alcun controllo) invece di negoziare con i fornitori di gas, luce e acqua l’assunzione a carico del Governo degli interi costi energetici (magari razionandone la disponibilità) e incrementare l’uso delle “tessere annonarie”. E’ già che ci siamo, il Governo avrebbe anche potuto calmierare – se non imporre la riduzione – dei prezzi, quantomeno per chi è costretto a ricorrere alle tessere in questione, trasferendo il costo su chi, per fortuna, non è costretto a ricorrere a questo supporto.
Quelli che producono reddito con le proprie mani – molti dei quali, in questo momento, hanno di fronte la prospettiva concreta di chiudere studi professionali, esercizi commerciali e imprese – non hanno bisogno di soldi, specie se presi a prestito, ma di lavoro.
Chi ha un reddito da lavoro autonomo lo ha prodotto, appunto, con il lavoro. Con il lavoro, ripeto, e non con speculazioni finanziarie, rendite da doppio o triplo impiego, o altro malcostume o malaffare. Ma se il lavoro non c’è più, questo reddito scompare e pensare che la soluzione sia far prendere dei soldi a prestito senza la possibilità di rientrare nel circuito produttivo significa solo prolungare l’agonia e aumentare insopportabilmente il peso da sostenere fino a quando, sfiniti, non ne si verrà schiacciati.
Faccio l’esempio della mia categoria – ma solo perchè è quella che conosco meglio e della quale posso parlare con cognizione di causa.
Processi bloccati, rinvii delle cause già a novembre 2020 e fra un po’ anche al 2021, e duque rinvio anche più oltre delle sentenze che avrebbero prodotto onorari. Giustizia penale arenata. Aziende che hanno risolto contratti di consulenza o sospeso i pagamenti. Impossibilità, per moltissimi, di trovare nuovi clienti. E la soluzione sarebbero 600,00 Euro per un paio di mesi, o l’accesso, ancora una volta al credito, che meglio sarebbe chiamare “debito”, bancario? No, meglio morire subito, o fallire e andare a chiedere il reddito di cittadinanza.
A chi è abituato a vivere del proprio lavoro, ripeto, non servono “oboli” e “paghette” ma lavoro. Il lavoro, e una sospensione sufficientemente lunga del debito verso il settore pubblico e quello privato (i cui maggiori interessi potrebbero essere a carico dello Stato).
Invece di far indebitare ancora di più aziende e professionisti, poi, il Governo potrebbe pagare immediatamente le decine di miliardi (credo siano circa sessanta) di debiti verso le aziende e potrebbe lanciare un poderoso piano di intervento pubblico nell’economia.
Invece, tanto per schematizzare:
- l’emergenza COVID-19 è la scusa per cercare di bloccare l’unica grande opera in corso (si comincia a risentire la parola d’ordine “bloccare la TAV”),
- non solo la rete 5g è parcheggiata ( per favore, basta con questa storia della “sicurezza nazionale”), ma nemmeno si intuisce una strategia concreta per l’espansione della rete in fibra e per la creazione di una seria industria basata sulle tecnologie delle informazioni – ridateci (Adriano) Olivetti!
- nè soprattutto c’è traccia della volontà di ristrutturare drasticamente il funzionamento della pubblica amministrazione incentivando automazione e digitalizzazione.
Certo, queste sono solo parole in libertà perché non sono un economista nè un esperto di scienze dell’amministrazione. Ma è anche vero che sono in buona compagnia visto che anche ai “piani alti” non mi sembra che abitino tanti “scienziati” in grado di distinguere John Mainard Keynes da Milton Friedman.
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