E’ oramai conclamato il fatto che l’attenzione – o meglio, l’ossessione – per la “privacy” ha poco a che vedere con un sincero interesse per i diritti garantiti dalla prima parte della Costituzione.
Stiamo vivendo in uno stato di democrazia sospesa, dove le Regioni (Lombardia e Veneto in particolare) hanno “strappato” competenze al Governo senza che, in futuro, quest’ultimo possa sperare di riprendersele, dove diritti essenziali come la libertà di riunione e di circolazione sono stati (giustamente) limitati, dove la libertà di espressione è compromessa dall’espansione inaccettabile e autodeterminata dei poteri dell’Autorità delle comunicazioni, dove ordine e sicurezza pubblica potrebbero andare fuori controllo, dove la giustizia è precipitata in un limbo e – forse prima di tutto – migliaia di persone sono morte e continuano a morire senza che si faccia nulla per ricostruire la mappa dei contagi, e tutto quello di cui si riesce a parlare è “la privacy”.
“La privacy” è un bene giuridico già ricompreso nella più ampia tutela garantita dal concetto di vita privata e familiare che non coincide con la mera “riservatezza”. E il “diritto alla privacy” è un non-diritto, inutile perchè quello che intenderebbe proteggere è già tutelato dalla Costituzione. Ma nonostante tutto questo sia evidente, continuiamo a seguire in modo acritico la vulgata che, in modo non sempre disinteressato, ha trasformato un concetto abbastanza rozzo e originato in un contesto giuridico (quello americano della fine del 1800) oggettivamente acerbo, in una specie di forza “supercostituzionale” in grado di schiacciare qualsiasi altro diritto.
L’emergenza COVID-19 ha dimostrato che se abbiamo bisogno di “privacy” non è certo quella di cui istituzioni ed “esperti” stanno parlando ora, e che – nell’immediato – compromette la lotta al Corona virus e – sul lungo periodo – danneggia permanentemente i nostri diritti fondamentali.
Quelli veri, intendo.
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