Il “distanziamento sociale” provoca, fra le altre cose, il ripensamento delle abitudini di consumo. Non si tratta soltanto di spendere il minimo indispensabile per cercare di resistere alla crisi economica in corso, ma di cambiare le priorità – e la propensione – all’acquisto di beni oggettivamente inutili ma nonostante tutto in cima alle “necessità” del consumatore.
“Viviamo in un tempo dove il superfluo è l’unica necessità” scriveva non molto tempo Oscar Wilde, ma questo tempo è, sperabilmente, finito. La clausura ci sta dimostrando come quello che (in tanti) abbiamo è ampiamente sufficiente a soddisfare le necessità quotidiane, l’assenza di occasioni d’incontro rende inutile sfoggiare lo smartphone più recente e la necessità di lavorare a distanza focalizza l’attenzione sugli strumenti che ce lo consentono più che su altre distrazioni da “shopping compulsivo”. Ci accorgiamo concretamente, in altri termini, quanto pesa(va) il superfluo nella nostra vita e di quanto e cosa possiamo fare a meno senza patire alcuna sofferenza.
Non credo che quando torneremo liberi il mondo vivrà come in un monastero francescano, ma spero che imparerà finalmente l’importanza di un consumo responsabile. E questo non vale solo per le persone, ma anche – e soprattutto – per le aziende e il sistema finanziario perchè la responsabilità riguarda anche la produzione e la strategia di vendita diretta ad incentivare il consumo “a prescindere”.
Non sto parlando della retorica estremista contro i “logo” o che soddisfa la propria “coscienza ambientale” con qualche passeggiata schiamazzante in centro a Milano, per poi riprendere motorino e cellulare e “vedersi” da qualche parte per un panino di plastica oppure da Starbucks. Mi riferisco, piuttosto, a una gestione consapevole ciò che “serve” per farci fare “cose”: ho realmente bisogno di una Maserati se oltre il supermercato non vado? Per carità, nel mondo del consumo esiste anche il soddisfacimento di esigenze individuali che vanno oltre il semplice rapporto “mezzo-fine” che misura l’utilità di un oggetto. Un conto, però, è decidere di acquistare qualcosa consapevoli del valore aggiunto che porta alla nostra persona, un altro conto è comprare “pur che sia”.
Anche in questo caso la pubblicità è uno strumento estremamente utile per misurare come cambiano – se cambiano – i comportamenti dei gruppi sociali.
Oggi, molte agenzie di publicità hanno pragmaticamente spostato il prodotto in secondo piano, accentuando messaggi di speranza, ottimismo e fiducia negli “eroi”. Hanno, in altri termini, sganciato la relazione fra “racconto” e “induzione alla vendita”, sostituendola con la relazione fra prodotto ed empatia.
Questo fa apparire ancora più distanti i film pensati prima del COVID-19 che, appunto, esaltano il superfluo, propongono di “comprare oggi e pagare domani” o ammiccano alle frustrazioni inespresse dell’uomo medio. Guardandoli, si avverte una sensazione di estraneità, come se improvvisamente quello spot che sembrava fatto su misura per me ora parlasse a (o di) qualcun altro.
“You can’t bore people into buying you product, you can only interest them into buying it” ammoniva David Ogilvy, e la sfida della comunicazione post-COVID-19 sarà proprio questa: parlare alle persone piuttosto che trattarle come limoni da spremere, se non altro perchè, oramai, di succo non ce n’è più.
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