di Andrea Monti – InfosecNews del 2 maggio 2020
A sentire i tuoni che hanno accompagnato questa storia dell’”app”osito software da caccia all’untore ci si sarebbe aspettati di essere sommersi da una pioggia torrenziale di dati e informazioni utili a tutelare la salute pubblica (per esempio consentendo di riconoscere anticipatamente un caso di contagio), a potenziare la ricerca scientifica (per esempio consentendo di capire la “modalità di circolazione” del virus), e garantire la pubblica sicurezza (per esempio aiutando le forze di polizie a controllare il rispetto degli obblighi di quarantena). Ma invece che da precipitazioni informative da stagione delle piogge tropicali siamo stati schizzati da un gavettone semivuoto: un software che, se qualcuno lo usasse, più o meno consentirà di informare chi è stato nel raggio d’azione del “dispositivo mobile”, come lo chiama il decreto-legge 28/2020, che forse ha incontrato qualcuno che ha contratto il virus.
Il dibattito generato dall’oramai inutile software di “contact-tracing” – definizione anodina, moderna e politically correct della caccia all’untore – si è concentrato sulla asfittica contrapposizione “privacy si” contro “privacy no”, con in mezzo i sostenitori del “bilanciamento di interessi”. E mai come in questo caso, vale la storia del dito, del saggio e della luna.
La reazione orticarioide provocata dalla possibilità di usare la tecnologia per aiutare il Paese ad arginare la diffusione del COVID-19 è la dimostrazione di quanto sia arretrata l’Italia quando si cerca di coniugare public policy e tecnologia.
Così come ai tempi delle prime automobili il loro arrivo doveva essere preceduto da uno sbandieratore che avvisava la cittadinanza dell’arrivo del mostro, (ancora) oggi tutte le volte che si pensa a come usare la tecnologia per migliorare il funzionamento delle infrastrutture pubbliche scatta il riflesso condizionato dello sbandieratore che avvisa del “pericolo per la privacy”. Peccato che questi pericoli siano puramente virtuali perchè in Italia non li ha mai visti nessuno e dunque sono virtuali anche i vari “allarmi” frutto della lettura di romanzi distopici o del nuovo luogo comune: “E allora in Cina?”
Già, allora in Cina? Chissà perchè tutti questi esperti di cose di mondo, quando si occupano di Estremo Oriente finiscono sempre a parlare di Pechino e – se va bene – di Hong Kong. Oltre, hic sunt leones.
In realtà, parafrasando una canzonetta degli anni 90, oltre la Cina c’è di più. Taiwan ha messo in piedi, non da oggi, un sistema impressionante di incrocio di dati e di capacità di allerta che nel caso dell’emergenza COVID-19 si è dimostrato particolarmente efficace. Lo ha fatto costruendo nel corso del tempo, un sistema certamente invasivo, ma gestito con trasparenza e che è diventato una parte integrante della vita quotidiana dei cittadini. Taiwan ha, in altri termini, esorcizzato la paura con la conoscenza e se qualcuno dei suoi scienziati, giuristi o politici deve parlare di “privacy e tecnologia” può farlo a ragion veduta essendosi confrontati con fatti concreti e non incubi notturni.
E mentre oggi, a giudicare gli stili di guida dei “piloti” di auto, moto, scooteroni e monopattini, se uno si azzarda ad agitare una bandiera per avvisare che sta arrivando una macchina lo scambiano per lo starter di un gara di formula 1 o di Moto GP, quando si parla di legge e tecnologia siamo ancora ai tempi dei profeti che preannunciavano la fine del mondo con l’arrivo dell’anno mille.
Ma il “mille e non più mille” è una fake news inventata nell’Ottocento, come la “paura per la privacy” è uno spauracchio agitato per ogni dove e capace di bloccare qualsiasi innovazione tecnologica prima ancora che si possa capire se e come funziona.
E’ il contrasto fra il mondo della scienza, che procede per prova ed errore, e quello degli zelanti “difensori della privacy” che vivono in un mondo in bianco e nero, dove le cose procedono per “dover essere” e non – come fra gli esseri umani – sperimentando e imparando dalla realtà.
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Post scriptum: avevo scritto questo pezzo qualche giorno fa, prima della notizia dell’uso, da parte della Regione Veneto, di una piattaforma integrata per la gestione dei dati “stile Taiwan”. Meglio tardi che mai, e speriamo che questa iniziativa sia estesa a livello nazionale – ma con trasparenza e senso di responsabilità verso i cittadini. E speriamo che i “difensori della privacy” – zelanti generatori di inerzia e immobilismo – non si mettano, ancora una volta, di traverso.
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