L’articolo 2 comma IV della “Proposta di protocollo per udienze civili tramite collegamento da remoto” del Consiglio Nazionale Forense, nel regolare lo svolgimento delle udienze civili da remoto, stabilisce che
è vietata la registrazione dell’udienza.
E’ un divieto – peraltro, privo di sanzione – privo di senso.
Sicuramente la scelta non può essere motivata da “questioni di privacy” perchè le udienze sono pubbliche ai sensi dell’articolo 128 del Codice di procedura civile, e le riprese audiovisive sono già sotto il controllo del giudice (penale) che può autorizzarle o meno.
Ma, direbbero gli ineffabili “difensori della privacy a tutti i costi”, registrare un’udienza rischia di far proliferare su social network, gruppi di messaggistica e pagine web di tante autonome versioni di “Un giorno in Pretura”, e questo non sarebbe tollerabile perchè “si diffondono i “dati sensibili – che non si chiamano più così da un paio d’anni – delle parti!”.
Sarà anche vero, ma allora non si capisce perchè le udienze devano essere pubbliche. E anche per questo, l’ineffabile “esperto di privacy” ha una risposta: un conto se quattro persone, per lo più giornalisti di cronaca locale, assistono all’udienza e scrivono un articoletto, un altro conto è far circolare per tutta la “rete mondiale” la registrazione del processo. E’ un ragionamento analogo a quello – sbagliato – di chi vuole i nomi dei “protagonisti” di vicende giudiziarie cancellati dalle versioni online dei giornali. Dopo la libertà di stampa, anche la giustizia dunque è “a pubblicità limitata”.
Considerata l’esperienza pratica di come funzionano veramente le udienze, però, temo che la ragione del divieto di registrazione sia un’altra: evitare che “la rete mondiale” scopra cosa accade veramente in quel segreto di Pulcinella che è il processo (penale, in particolare).
Come scrivo in “Sopravvivere al processo penale”, un pamphlet di prossima uscita,
… ogni processo trabocca di personalismo, anarchia, presunzione, orgoglio, frustrazione, paura, aggressività, incompetenza, cialtroneria, competizione.
Umanità, in una parola.
Viene da chiedersi, dunque, se sia vero anche per il processo penale italico ciò che scrive Dershowitz nel suo libro:
“Nessuno vuole veramente giustizia. “Vincere” è “l’unica cosa che conta” per molti componenti del sistema giudiziario penale – così come lo è per gli atleti professionisti. Gli imputati – e i loro difensori – non vogliono certo giustizia, vogliono assoluzioni o, almeno, condanne leggère … i pubblici ministeri vogliono vincere specie quando l’imputato cerca di cavarsela sfruttando gli errori commessi durante le indagini, con delle “tecnicalità” in altri termini … Almeno i giudici, si potrebbe pensare, avranno interesse a fare giustizia … ma non hanno un particolare interesse all’esito di un determinato caso … Molti si considerano un elemento dell’accusa, in aggiunta alla polizia e al pubblico ministero. Vogliono essere certi che i delinquenti siano condannati e mandati in prigione. Anche se la legge impone un’assoluzione, faranno di tutto – all’interno dei loro poteri e a volte anche oltre – per condannare imputati che ritengono meritevoli di pena.”
Fino a quando di tutto questo si conserva memoria negli sfoghi effimeri del dopo-udienza o nei “racconti di guerra” fra colleghi che non si vedono da un po’, il problema è relativo.
Ognuno, magistrato, avvocato o anche parte privata, come in Rashomon, racconta la propria versione dei fatti certo che nessuno la possa smentire e così, da un lato, si propagano “vulgate” su come funziona la giustizia e dall’altro nessuno conserva la verità.
Adesso, però, che le tecnologie sono mature abbastanza, le udienze dovrebbero essere videoregistrate perchè nulla come l’occhio di una telecamera induce le parti – tutte le parti – a comportarsi correttamente, a studiare il fascicolo prima di andare in udienza, ad astenersi da comportamenti inappropriati nel formulare eccezioni (ma anche nel rigettarle).
Il rischio vero del registrare le udienze, dunque, non è “la violazione della privacy” ma l’incremento incontrollabile dei procedimenti disciplinari e delle azioni di responsabilità, oltre alla possibilità di rendersi conto immediatamente (nel senso di “senza mediazione”) del reale valore professionale dei singoli partecipanti.
E infine: sarà anche possibile “vietare” la registrazione via Teams o qualsiasi altro strumento che verrà utilizzato, ma nessuno potrà impedire l’utilizzo di uno screen recorder o – per i meno tecnologici – di uno smartphone. Sarà anche vietato, deontologicamente scorretto o addirittura illecito, ma se la registrazione viene fatta per documentare un abuso – commesso da una qualsiasi delle parti processuali – sarà difficile far finta “di non avere visto”. Come nel caso della giurisprudenza in materia di sequestro, dove la nullità della perquisizione non vizia la validità del sequestro, anche in questo caso dovrebbe valere il principio male captum, bene retento.
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