La necessità di gestire la pandemia ha alterato il rapporto fra diritto e politica e ha disegnato un nuovo assetto istituzionale dagli effetti imprevedibili sul lungo periodo di Andrea Monti – professore incaricato di digital law nel corso di laurea in digital marketing – Università di Chieti-Pescara – Originariamente pubblicato da Formiche.net
Un laconico lancio stampa de IlSole24Ore sulla legge di conversione del decreto legge Green Pass informa che “Le novità sono state introdotte con emendamenti approvati in commissione Affari costituzionali del Senato e il testo approda il 10 novembre in aula per poi passare alla Camera dove non sarà modificato, in quanto deve essere convertito entro il 20 novembre.”
A stretto rigore, questo significa che la legge di conversione verrà approvata in palese violazione delle regole formali stabilite dalla Costituzione, trasformando la procedura in una sorta di “super decreto-legge”. Da nessuna parte è stabilito, infatti, che una legge possa essere approvata di fatto da un solo ramo del Parlamento sulla base di un semplice “gentlemen agreeement” politico in base al quale tutti i deputati si astengono dal valutare la necessità di emendamenti.
È vero che, pragmaticamente, se qualche parlamentare volesse presentare emendamenti anche solo a scopo ostruzionistico nulla glielo impedirebbe, ma questo ostacolo sarebbe agevolmente superato dall’apposizione della fiducia da parte del Governo. Dunque, almeno in apparenza, l’approvazione monocamerale di una legge non sarebbe un gran problema: c’è un’emergenza, le norme servono subito, non si può perdere tempo in bizantinismi formali, troviamo una soluzione politica che risolva il problema rispettando le forme ma non la sostanza.
La perdita di funzione della “forma” legale e la prevalenza della “sostanza” fattuale
Questo approccio re(g)alista in politica ha un suo corrispondente in quello degli esperti di materie sanitarie che manifestano insofferenza verso i “cavilli” della legge e —invocando la superiore necessità di salvare la vita delle persone— dichiarano apertis verbis di non curarsi delle norme.
Entrambi sono la spia di un malessere diffuso, presente da tempo nei meccanismi istituzionali e aggravato dalle complessità di gestione degli effetti della pandemia: da un lato la politicizzazione della legge che ne ha snaturato scopo e funzione; dall’altro (ma è un aspetto diverso dello stesso problema) la concezione del diritto come un qualcosa da mettere da parte quando ci sono problemi veramente seri da affrontare, invece di utilizzarlo in modo efficiente per superare le difficoltà.
Evidentemente, la legge è politica.
A meno di non avere una concezione teocratica del diritto è indiscutibile che la sua funzione pratica sia quella di “contrattualizzare” l’accordo politico raggiunto fra i diversi gruppi portatori di diverse, e a volte contrastanti, visioni del mondo. Non è scandaloso né “irrituale” che le norme sottintendano un accordo politico, ma è importante che l’accordo sia raggiunto rispettando il valore sostanziale dei processi formali.
In altri termini, rispettare la separazione dei poteri, osservare le procedure per la formazione delle leggi, mantere l’operato dell’esecutivo all’interno delle attribuzioni costituzionali sono comportamenti politici (politici, non giuridici) essenziali per consentire l’ordinato svolgimento delle attività istituzionali.
Fare scelte diverse “in nome dell’emergenza” è sempre possibile (d’altra parte, la politica è libera nel fine) ma sul lungo periodo indebolisce la resistenza del sistema fino a causarne il collasso perché rompe il patto sociale basato sul comune rispetto del rule of law. Non siamo di fronte, come pure si è detto, alla trasformazione dello stato di eccezione in condizione di normalità, ma di una riforma di fatto dell’ordinamento costituzionale della Repubblica.
Gli effetti della perdita di ruolo del rule of law
L’analisi diacronica degli atti e dei comportamenti normativi delle istituzioni centrali e locali, i problemi di ordine e sicurezza e la questione scottante dell’obbligo vaccinale dimostra che ogni decisione —presa singolarmente— avrebbe anche potuto avere senso in rapporto al problema da affrontare nel momento specifico. Complessivamente, tuttavia, il risultato è stato quello di applicare norme e principi difficilmente compatibili con la Costituzione, privilegiare soluzioni istantanee e ufficializzare la fine del “primato della legge” come elemento qualificante di una democrazia occidentale.
Questa considerazione, formulata in relazione al processo di formazione della legge, è ancora più valida quando si analizza la confusione del ruolo delle fonti del diritto e della loro gerarchia.
Le ordinanze regionali e comunali non sono “leggi” e non possono occuparsi di materie diverse da quelle stabilite dal Testo unico degli enti locali e dalla normativa complementare. Eppure, sono state utilizzate con funzione paranormativa perché per la loro pur breve durata nel tempo avevano di fatto lo stesso ruolo. Un altro esempio è stato fornito dalla necessità di ottenere il più alto livello possibile di rispetto delle norme emanate durante la fase critica della pandemia (e in particolare quelle su distanziamento e quarantena). Pragmaticamente, questa necessità ha richiesto di affiancare al meccanismo formale di pubblicazione di leggi e provvedimenti basato sulla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e sull’adozione di provvedimenti secondari, il sistema delle “FAQ”. Le “FAQ”, tuttavia, non hanno valore giuridico come ha puntualmente rilevato il Consiglio di Stato con la sentenza 1275/21 e il loro utilizzo ha di fatto spostato nelle mani dell’esecutivo il potere di interpretazione che, di regola, spetta al Parlamento e al potere giudiziario.
Le stesse necessità pragmatiche hanno condotto anche in Italia a scelte di politica pubblica basate, come già ha fatto il Regno Unito, sul nudging che di fatto hanno superato le difficoltà dell’utilizzo di strumenti giuridici.
La dimensione internazionale del problema
La situazione descritta in queste pagine non è esclusivamente italiana perché anche in ambito comunitario stiamo assistendo a un fenomeno analogo, frutto dell’impossibilità di approvare la costituzione europea e della contemporanea necessità di attribuire alla UE poteri che di fatto sono necessari ad esercitare la sovranità comunitaria.
Assumere decisioni in materia di confini esterni (che non esistono), difesa comune (che non è possibile), procura europea e giustizia penale, sicurezza pubblica e nazionale (che sono riservate agli Stati membri) sono scelte che i trattati, formalmente, non consentono, ma che sono imposte dalla necessità pragmatica dell’accelerare l’acquisizione di un ruolo autonomo della UE —sarebbe interessante, peraltro, capire se questo processo di assorbimento delle attribuzioni degli Stati membri stia accadendo a loro insaputa o sulla base di un pragmatico trasferimento definitivo di fatto della sovranità nazionale.
Il ritorno al rispetto delle forme come argine alla deriva del do the right thing e al recupero del patto sociale
La sintesi di questo ragionamento è che in nome dell’emergenza e di una non meglio identificata morale pubblica il patto sociale fra cittadini e Stato si è rotto o sta per rompersi definitivamente. Le sgangherate, pericolose e infondate rivendicazioni “in nome della libertà” e la trasformazione della Costituzione in un feticcio da “proteggere” —questa, in sintesi, la narrativa della protesta di questi giorni— sono contrastate da altra parte della società che rivendica una superiorità morale derivante dall’avere compiuto una scelta, in nome della quale la legge deve fare un passo indietro e lasciare che altri siano vengano discriminati. Sono posizioni altrettanto irrazionali, simili al “dàlli all’untore” di manzoniana memoria. Lo Stato, dal canto suo, ricorre a provvedimenti —come quelli ispirati al singolare concetto che le manifestazioni “non devono disturbare”— adottati sulla base della necessità contingente senza preoccuparsi del precedente che viene stabilito. Come si regoleranno, in futuro, le grandi manifestazioni sindacali, le iniziative sul cambiamento climatico o quelle sul sostegno ai diritti umani in Paesi antidemocratici?
La posizione di stallo nella quale ci troviamo che sta generando seri problemi di ordine pubblico e sicurezza sanitaria dipende proprio dall’avere sostituito il rule of law con il primato etico. Mentre la legge è, per sua natura, frutto di un compromesso che, una volta raggiunto, va rispettato senza condizioni, l’etica è per sua natura assoluta e non discutibile e, come insegnano, le guerre di religione, ammette soltanto una soluzione: l’eliminazione del “credo” opposto.
Come ho scritto in COVID-19 and public policy in the digital age “Se i cittadini sono convinti che il governo gioca rispettando le regole e non cerca scorciatoie nel bilanciare l’interesse pubblico con i diritti individuali, di solito supera il test di responsabilità. La gente sarà più disposta a vivere in una società guidata dalla tecnologia e dai dati. La fiducia nella politica e nei politici è al minimo, e non è facile da stabilire o ricostruire. Mentre c’è del vero nell’aforisma di Verga —al giorno d’oggi per conoscere un uomo bisogna mangiare sette salme di sale— ma sette salme potrebbero non essere sufficienti quando si tratta di fidarsi dei politici.”
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