Non entro nel merito – perchè non lo conosco – della vicenda di alcuni avvocati che si sarebbero organizzati per “fare causa” a operatori sanitari per decessi causati dal trattamento per COVID-19, ma trovo molto discutibile la posizione espressa dal Consiglio Nazionale Forense e quella di molti che, in pubblico, annunciano di non voler far causa ai medici “per questioni deontologiche ed etiche”.
Una premessa è necessaria per sgombrare il campo da equivoci: mi capita spesso di difendere medici dalle denunce dei pazienti. Fino ad ora i sanitari che ho assistito sono stati tutti assolti o nemmeno rinviati a giudizio non perchè io sia particolarmente abile, ma perchè si trattava di azioni palesemente strumentali e infondate. Alcune si sono risolte in un paio d’anni, altre ne hanno incredibilmente, richiesti anche quasi una decina, ma il filo rosso che lega le vicende di cui mi sono occupato è la vendetta consumata con fucili caricati a pallini. Mi riferisco alla tendenza dei parenti delle vittime che cercano un capro espiatorio pur che sia, e che per averlo “sparano nel mucchio” coinvolgendo anche persone colpevoli solo di essere indicate nella carta intestata del reparto sanitario. Nella tassonomia di chi fa causa ai medici, poi, non vanno dimenticati gli “affezionati parenti” del “caro estinto” che non riescono a consolarsi di avere perso lo zio Giovanni, no Francesco, macchè, era nonno Antonio… “vabbè fa lo stesso. C’avete perso er vecchio, e mo ce dovete da pagà”.
Detto questo, vorrei chiedere al Consiglio Nazionale Forense: perchè un medico che in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo dovrebbe avere la “licenza di uccidere”? Non dovrebbe essere il contrario? Non dovremmo aspettarci che proprio in questi casi un medico faccia del proprio meglio, e anche di più?
“Ma” – risponderanno i benpensanti – “non sarebbe giusto punirli perchè loro sono “eroi”!!! E poi, guardate in quali condizioni sono costretti ad operare, senza mascherine, senza ventilatori. Che cosa pretendete da loro? Vergognatevi!!”
Che gli ignoranti benpensanti dicano cose del genere – nel clima di tuttologia diffusa che anima i nostri tempi – ci può anche stare. Che affermazioni del genere arrivino da professionisti del diritto, meno.
Per una volta, dunque, scrivo apposta in legalese: la colpa (medica) va qualificata in relazione alle condizioni concrete nelle quali si è verificato l’evento morte. Questo significa che si dovrà valutare, nello specifico, in quali condizioni – sia di stress, sia di dotazioni – si è trovato ad operare il sanitario. Ne consegue che non necessariamente un errore pur effettivamente commesso potrebbe essere imputato per colpa all’agente. Andrebbe semmai indagata la responsabilità della ASL per le carenze organizzative non sanate e che hanno messo gli incolpevoli sanitari in condizione di non operare al meglio. Diverso il caso della colpa inescusabile, cioè di un comportamento gravemente negligente – ipotizzo: ritardare un intervento salva-vita perchè impegnato in una telefonata personale – che specie di questi tempi andrebbe sanzionato duramente.
Tornando dal legalese all’Italiano, ci sono altre considerazioni da fare: perchè i medici sono “eroi” adesso e non lo sono quando, nell’ordinarietà quotidiana, salvano ugualmente una quantità enorme di vite grazie alla stessa dedizione che stanno dimostrando di questi tempi?
Perchè coloro che annunciano commossi “che non faranno causa ai medici” non tengono la loro scelta professionale riservata invece di esporla pubblicamente? E, attenzione, non parlo di chi dice “volevano incaricarmi di fare causa a un medico ma ho rifiutato” ma di chi, invece, dietro il “non faccio causa ai medici” nasconde il “nessuno mi ha chiesto di fare qualcosa contro un medico, ma casomai accaddesse non lo farei”. E’ marketing professionale che sfrutta il COVID-19?
Il che ci porta all’ultimo aspetto di questa incredibile vicenda: cosa vuol dire difendere una persona, sia essa imputata o vittima di un reato.
Difendere vuol dire lavorare per far affermare un diritto. Quello dell’imputato – di qualsiasi imputato – alla difesa, quello della vittima – qualsiasi vittima – a vedersi vendicata per mano dello Stato (questa è l’essenza del diritto penale). Per quale motivo, dunque, chi ha commesso una grave negligenza dovrebbe “farla franca” e chi ne ha subito le conseguenze dovrebbe subire la beffa, oltre al danno? E perchè chi – gli avvocati – ha il dovere di tutelare tutte le parti dovrebbe – passatemi il gioco di parole – farsi da parte? E perchè, ragionando al contrario, gli avvocati dovrebbero difendere un omicida, uno stupratore o un trafficante di morte? Forse che in quel caso la loro “etica individuale” non si attiva di fronte a vittime di crimini efferati? La verità è che far l’avvocato è un lavoro “sporco” perchè ci espone alla parte peggiore della società e dell’essere umano. E’ difficile, dopo anni di contatto continuo con delinquenti della risma più disparata – ma anche con “vittime” assetate di sangue e soldi – mantenere un po’ di umanità e la capacità di operare professionalmente senza superare i limiti stabiliti dall’appartenenza a questa professione.
E allora, dunque, il problema non è “fare” o “non fare” un causa, ma un altro: attaccare i medici con azioni giudiziarie impostate come la pesca a strascico oppure come il tiro al piccione con il fucile a pallini di cui parlavo all’inizio: se qualcosa è inaccettabile in situazioni del genere è coinvolgere chiunque, e poi si vedrà.
E’ un comportamento professionalmente negligente e deontologicamente sbagliato perchè le cause si fanno solo contro chi, carte alla mano, può avere avuto un ruolo causale concreto nel provocare un danno (medico). Dunque, l’avvocato deve selezionare accuratamente la persona – e il motivo – sui quali basa l’avvio dell’azione giudiziaria.
“Sparare nel mucchio” e sperare di colpire qualcosa, o meglio, qualcuno, è la strategia spregiudicata che viene messa in atto molto anche e soprattutto in “tempo di pace”. Ma su questo nè il Consiglio Nazionale Forense, nè i professionisti che “non vogliono fare causa agli eroi” dicono mezza parola.
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