La sentenza del tribunale di Perugia sull’illecita esplusione di Alma Shalabayeva emanata dal tribunale penale di Perugia il 14 ottobre 2020 ripropone il tema delle extraordinary rendition e delle attività delle strutture di intelligence di Paesi stranieri sul suolo italiano di Andrea Monti – Originariamente pubblicato da Infosec.News
Le extraordinary rendition sono —in termini penalistici— dei rapimenti compiuti dai servizi di intelligence di una nazione (o su loro commissione, da “terze parti”) nel territorio di Paesi terzi. Si possono portare a termine con il supporto esplicito del Paese “ricevente”, fidando sul fatto che l’intelligence interna “chiuda un’occhio” (o magari tutti e due, e che si tappi anche le orecchie), oppure in totale clandestinità. Nel primo caso, gli apparati del Paese “ricevente” sono direttamente coinvolti e dunque responsabili davanti alla Legge. Negli ultimi due casi, l’azione è compiuta violando la sovranità nazionale del Paese nel quale viene commesso il fatto e “auspicando” che nessuno se ne accorga.
Benché giustificate dal punto di vista del Paese che le ordina, azioni di questo genere (non solo rapimenti, ma anche omicidi come nel caso dell’operazione Wrath of God oppure in quello dell’avvelenamento da Polonio di Alexander Litvinenko ) sono a tutti gli effetti dei reati e, soprattutto, una violazione della sovranità nazionale del Paese nel quale viene commesso il fatto.
La storia italiana recente e pubblica ha registrato due vicende che ripropongono il tema della tutela degli interessi stranieri sul suolo italiano con metodi ispirati alla Machtpolitik e dei limiti del sistema di check-and-balance su attività di questo genere. Si tratta del rapimento a Milano del mullah Abu Omar ordito dalla CIA nel 2003 a Milano e, nel 2013, l’espulsione dall’Italia di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente Kazako ricercato dalle autorità del suo Paese, decisa ed eseguita fulmineamente e —secondo la sentenza di primo grado emessa il 14 ottobre 2020 dal tribunale di Perugia — in modo illegittimo tanto da giustificare la condanna di due dirigenti della Polizia di Stato per sequestro di persona e falso ideologico.
Delle due, a stretto rigore, solo la vicenda di Abu Omar è classificabile come extraordinary rendition mentre il caso Shalabayeva rientra, tecnicamente, in una “normale” attività di contrasto all’immigrazione clandestina, dal momento che la consegna della donna alle autorità kazake è stata la conseguenza logica e giuridica di un provvedimento di espulsione. I dettagli rivelati dalla stampa all’epoca dei fatti e poi emersi durante il processo raccontano, tuttavia, una storia diversa la cui sostanza non sarebbe dissimile da quella del caso precedente. Anche in questa vicenda, infatti, sembra che le relazioni politiche internazionali abbiano giocato un ruolo importante. Tutto sarebbe infatti partito da un primo contatto fra Giuseppe Procaccini, il capo di gabinetto dell’allora ministro dell’interno, Alfano e diplomatici kazaki che avrebbero chiesto supporto per l’arresto di un ricercato (ma che si definisce dissidente politico) localizzato a Roma. Non avendo avendo trovato la persona in questione, le autorità italiane hanno “ripiegato” sulla moglie, contestandole lo stato di clandestinità e consegnandola alle autorità kazake dopo una procedura di espulsione che il tribunale di Perugia ha riconosciuto come illegittima, condannando svariate persone, fra le quali due dirigenti della Polizia di Stato, per sequestro di persona e falso ideologico.
Le prove formate nel corso del dibattimento lasciano qualche perplessità su alcune condanne ma solo la motivazione della sentenza potrà spiegarle (se ne sarà capace). Ciò che conta, invece, è la circostanza che, a differenza del caso Abu Omar dove ben quattro governi imposero il segreto di Stato, nel caso Shalabayeva questo non è accaduto.
È ragionevole pensare che non sapremo mai cosa sia successo nelle “fasi preliminari” dell’operazione Shalabayeva e in particolare nei primi contatti fra le istituzioni kazake e italiane. Ma la mancata imposizione del segreto di Stato lascia intendere che in questo caso non ci troviamo di fronte ad azioni compiute in nome dei superiori interessi della Repubblica.
Dunque, chiudendo il cerchio, se è vero che l’affaire Shalabayeva era finalizzato a prendere degli ostaggi e non un delinquente, possiamo senz’altro qualificare anche questa vicenda come una extraordinary-rendition anche se non riconosciuta dal governo italiano.
Il fatto che sia potuta accadere, e con le modalità descritte dalla stampa ed emerse durante il processo, pone tuttavia seriamente il problema di quanto, e fino a che punto, si possa invocare la ragione di Stato per giustificare determinati comportamenti. E, soprattutto se non sia arrivato il momento, fuori da ogni ipocrisia, di regolare anche questa zona grigia delle attività istituzionali compiute nell’interesse dello Stato, per evitare che “in nome della sicurezza nazionale” si commettano abusi che danneggiano, oltre alle vittime, anche la fiducia dei cittadini nella Repubblica.
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