di Andrea Monti – PC Professionale n. 255
Una sentenza della Corte europea ribadisce che il software è protetto nella sua espressione concreta, e non per le idee che lo hanno originato
La sentenza della Corte di giustizia UE del 2 maggio 2012 (Caso C-406/10) stabilisce alcuni importanti principi nell’annosa questione del rapporto fra diritti degli utenti e proprietari di software.
Nello specifico, interpretando la direttiva comunitaria sulla protezione della software (91/250/CE) la Corte ha precisato che: “non costituiscono una forma di espressione di un programma per elaboratore e non sono, a tale titolo, tutelati dal diritto d’autore sui programmi per elaboratore ai sensi della predetta direttiva né la funzionalità di un programma siffatto né il linguaggio di programmazione e il formato di file di dati utilizzati nell’ambito di un tale programma per sfruttare talune delle sue funzioni”; “colui che ha ottenuto su licenza una copia di un programma per elaboratore può, senza l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore, osservare, studiare o sperimentare il funzionamento di detto programma al fine di determinare le idee e i principi su cui si basa ogni elemento di tale programma, allorché egli effettua operazioni coperte da tale licenza nonché operazioni di caricamento e svolgimento necessarie all’utilizzazione del programma e a condizione che non leda i diritti esclusivi del titolare del diritto d’autore sul programma di cui trattasi”.
I due principi di diritto formulati dalla Corte costituiscono delle linee guida per sviluppatori di software (specie open source) che finalmente hanno indicazioni chiare per evitare di essere trascinati in costosissime (e magari strumentali) cause, da titolari di software proprietario che lamentano “violazioni di copyright” per via di somiglianze di interfacce o implementazione di funzionalità.
Il caso giunto davanti ai giudici europei riguardava l’accusa mossa da una software house a un suo concorrente, colpevole di avere utilizzato delle versioni di un programma proprietario licenziato a soli fini di uso interno per studiarne il comportamento e replicarne le funzionalità. Sosteneva il titolare dei diritti d’autore sul software che questo comportamento non era concesso dalla licenza e dunque il concorrente aveva commesso un atto illecito. Risponde la Corte scrivendo che “il titolare del diritto d’autore su un programma per elaboratore non può impedire, fondandosi sul contratto di licenza, che il licenziatario determini le idee e i principi su cui si basa ogni elemento di tale programma” sempre che ciò accada senza disassemblare abusivamente il software stesso. Questo perché, come correttamente ha rilevato l’avvocato generale nelle conclusioni presentate in causa, “ammettere che la funzionalità di un programma per elaboratore possa essere tutelata dal diritto d’autore equivarrebbe ad offrire la possibilità di monopolizzare le idee, a scapito del progresso tecnico e dello sviluppo industriale”.
Dunque, per essere chiari, in Europa ciò è protetto il software nella misura in cui è “tradotto” in codice sorgente o compilato. Ma non sono protette – e non sono proteggibili – le funzionalità, le interfacce e l’interazione utente-macchina. Questo fa giustizia di approcci iperprotezionistici che cercano di estendere l’ambito di applicazione della normativa sul copyright fino, appunto, alla semplice idea. E’ il caso di Apple e della guerra dichiarata ad Android colpevole, secondo Steve Jobs che si dichiarava disposto a scatenare un conflitto termonucleare, di rubare le idee della sua azienda.
La conseguenza logica del primo principio espresso dalla Corte europea è l’irrilevanza dei divieti contenuti nella licenza. In altri termini, il titolare dei diritti su un software non può fare totalmente “il bello e il cattivo tempo” in casa dell’utente. A condizione, infatti, che vengano rispettati i diritti essenziali dell’autore – meglio, del titolare dei diritti di sfruttamento economico del software – le clausole della licenza che vietano all’utente di studiare funzionamento e funzionalità del programma sono nulle. E dunque, una eventuale minaccia di azione giudiziaria basata su questi presupposti potrebbe addirittura ritorcersi contro il titolare dei diritti. Quest’ultimo, infatti, potrebbe passare da carnefice a vittima ed essere denunciato penalmente se tentasse di intimidire uno sviluppatore minacciando azioni legali basate su diritti inesistenti.
Nello stesso tempo, però, bisogna essere molto chiari su un punto: le facoltà riconosciute da questa sentenza agli utenti non possono sfociare nella violazione dei diritti dell’autore-proprietario di un software. Detto in altro modo, nulla, in questa sentenza, legalizza il disasemblaggio non autorizzato di codice compilato. Che poi sia molto difficile replicare funzionalità di un software senza una scorciatoia oggettivamente utile come il reverse-engineering del codice è un altro paio di maniche.
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