di Andrea Monti – PC Professionale n. 234 – settembre 2010
I titolari dei diritti d’autore di opere nel repertorio SIAE pubblicati dagli utenti verranno pagati con gli introiti pubblicitari.
Il 28 luglio 2010 Google e SIAE hanno annunciato di avere raggiunto un accordo per consentire la remunerazione dei titolari dei diritti sulle opere che gli utenti pubblicano su Youtube tramite una quota degli introiti pubblicitari generati dai contenuti in questione. Nello stesso tempo, assicurano da Google, viene rispettata la privacy degli utenti che non vengono schedati nelle loro attività di upload.
Dunque, a meno che il titolare dei diritti non si opponga chiedendo la rimozione dell’opera, grazie a questo accordo sembrerebbe compiuto un enorme passo in avanti per conciliare le posizioni diametralmente opposte di chi (giustamente) vuole evitare un abuso della sua proprietà intellettuale, di chi (altrettanto giustamente) vuole sfruttare l’enorme potenziale della fornitura di piattaforme per user-generated content e di chi rende effettivamente possibile tutto questo (gli utenti).
Astraendoci per un attimo dagli aspetti strettamente legati alla legge italiana sul diritto d’autore (che, paradossalmente, come vedremo, non consentirebbe in realtà un accordo di questo genere), l’idea di Google e SIAE mette pragmaticamente fine all’annoso problema del come pagare i diritti per le attività di riproduzione e diffusione online di opere protette. Poco importa se – a monte – l’utente abbia o meno il diritto di catturare parte (o, questo punto, tutta) l’opera protetta e di pubblicarla online. Ciò che conta è che alla fine del giro qualcuno paghi. E se non è l’utente ma il gestore della piattaforma di content-delivery a fare da esattore poco male.
In realtà, e veniamo agli aspetti tecnico-giuridici, stando alla lettera della legge il meccanismo ipotizzato da Google e SIAE potrebbe incepparsi sul fatto che i reati di duplicazione e utilizzo illecito di opere protette sono perseguibili d’ufficio. Questo significa, in altri termini, che a fronte di un uso non autorizzato di un’opera protetta il magistrato inquirente è obbligato ad aprire un procedimento penale. Dunque, nel caso specifico, poco importa che – in termini sostanziali – gli editori percepiscano le loro royalty da qualcun altro: l’utente è e rimane a rischio di denuncia penale. E che questo scenario sia probabile lo dimostra il fatto che gli stessi protagonisti dell’accordo hanno espressamente dichiarato che se il titolare dei diritti non vuole che l’opera sia diffusa tramite Youtube, essa verrà immediatamente cancellata.
Se questo è vero, sarebbe quantomeno paradossale che chi si prende la briga di popolare di contenuti la piattaforma di Google – e che quindi rende possibile anche alla SIAE di guadagnare in diritti – rischi poi di finire sotto processo nella più totale solitudine. Ma questo scenario pone problemi anche nell’ambito della tutela dell’utente che esegue gli upload su Youtube. L’accordo stipulato fra le parti, infatti, non prevede espressamente un potere di accesso da parte di SIAE al database degli utenti Youtube, ma non lo vieta nemmeno.
Va pur detto che, nel silenzio delle parti, un simile potere di accesso sarebbe tuttavia consentito solo alla magistratura e dunque non dovrebbero esserci conseguenze negative per chi contribuisce al successo di Youtube. A meno, e qui casca l’asino, che qualche titolare di diritti non decida di vietare – ovviamente a posteriori – la pubblicazione di un certo materiale. Certo, Youtube lo rimuoverà immediatamente, ma ancora una volta questo non risolve il problema di chi quel file ha reso disponibile, magari indotto proprio dallo “scudo” legale offerto dall’accordo SIAE. In questo caso, infatti, sarebbe addirittura Google a dover informare le autorità, a sensi della direttiva sul commercio elettronico (che impone ai fornitori di servizi l’obbligo di segnalare le violazioni di legge di cui viene a conoscenza). Tutto questo, non per diminuire il valore dell’iniziativa assunta da Google e dalla SIAE ma per evidenziare, ancora una volta, come la rigidità del sistema sanzionatorio del diritto d’autore (voluto – è bene non dimenticarlo – dalle major del software, dell’intrattenimento e dalla stessa SIAE) ora si sta rivoltando contro di loro, impedendo o fortemente limitando la possibilità di fare business grazie a modelli tecnologici e commerciali realmente innovativi.
Cosa sarebbe necessario fare? Innanzi tutto, cancellare le sanzioni penali almeno su parte delle condotte attualmente punite (accentuando, al contrario, le tutele civili, cioè il risarcimento danni). E se proprio non è possibile, almeno eliminare l’obbligo per il magistrato di indagare a fronte di una semplice segnalazione, lasciando ai titolari dei diritti la scelta se presentare una vera e propria querela (e dunque facendo partire il processo) oppure se gestire la situazione in modo più flessibile, come nel caso che ci interessa.
Quella della “levy” sugli utili generati dalle attività degli utenti, infatti, sembra proprio lo strumento più adatto per gestire il pagamento dei diritti d’autore sulle opere diffuse digitalmente ma, attenzione, se questa levy riguarda esclusivamente i fornitori di contenuti e non quelli di accesso. Mentre, infatti, nel caso di una piattaforma di user-generated contents è chiaro e indiscutibile che chi la gestisce trae un guadagno diretto dalle attività degli utenti, non è così per i servizi di accesso. Questi ultimi, al contrario, sono ad esempio fortemente penalizzati dall’occupazione continua e massiccia di banda passante da parte degli utenti, e in ogni caso, non hanno – a differenza dei fornitori di contenuti – un modello commerciale essenzialmente basato sull’utilizzo di opere protette.
Usare l’accordo Google-SIAE per cercare di far passare un modello analogo per i fornitori di accesso sarebbe rinnovare la profonda ingiustizia della “tassa sui supporti” che colpisce innanzi tutto proprio quegli utenti che non usano memorie di massa per duplicare, anche legalmente, audio, video e quant’altro.
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