La causa avviata il 21 luglio 2022 da Epic Sound (un’etichetta discografica) contro Facebook e Meta davanti alla U.S. District Courts, California Northern District Court è l’ennesimo capitolo della storia infinita che racconta del ménage à trois fra industria dell’intrattenimeno, social network e copyright, con tanto di “quarto incomodo” cioè l’autore indipendente o – come si ama chiamarlo oggi – il “content creator” di Andrea Monti – inzialmente pubblicato su Strategikon – un blog di Italian Tech
Il merito della questione, che allo stato è ancora tutto da accertare, sta nel fatto che Epic Sound non si lamenta (solo e non tanto) delle continue violazioni dei propri diritti ma della deliberata agevolazione di Meta alla pubblicazione di musica non licenziata, dell’ostruzionismo nel consentire all’etichetta di esercitare controlli e del rifiuto di stipulare un accordo per l’utilizzo del catalogo musicale.
In attesa del verdetto (o della transazione “conclusa senza ammissione di responsabilità e soltanto per non incorrere in perdite di tempo e spese legali” e “i cui contenuti non sono stati resi pubblici”) questa notizia è l’occasione per tornare su tre temi fra di loro interdipendenti: il ruolo dei contenuti nell’economia delle piattforme, la tutela degli autori – pardon, “content creator” – indipendenti e la responsabilità di chi, a vario titolo, guadagna sui contenuti in questione.
Da sempre, infatti, il riutilizzo più o meno lecito dei contenuti è un fattore importante per decretare il successo di una piattaforma di social networking. Senza un flusso continuo di musica, video e immagini è impossibile soddisfare la bulimia vorace di un sistema con il metabolismo da buco (o pozzo) nero. Dunque per sfamarlo va bene qualsiasi cosa, dagli avanzi buttati nella spazzatura al manicaretto —fuor di metafora, dalle riprese rigorosamente in verticale di gatti o imbarazzanti autoscatti a opere protette dal copyright, comprese quelle che non fanno parte dei cataloghi di editori, etichette e case cinematografiche.
Da un lato c’è la disinvoltura di piattaforme che pure hanno (non da molto tempo) attivato dei sistemi per gestire le segnalazioni di violazione di copyright e stipulato accordi con le Major. Per quanto questi sistemi possano funzionare, la quantità delle violazioni non si riduce in modo significativo e le rivendicazioni di Epic Sound (come anche le innumerevoli querelle sul riutilizzo illecito di fotografie altrui) sono indicative, in termini generali, della scarsa propensione delle piattaforme ad assumersi responsabilità che, pure, sono abbastanza evidenti. Del resto, (alla faccia dell’innovazione e della modernità) è comprensibile che la logica commerciale di chi gestisce una piattaforma sia quella tradizionale dell’acquistare a poco, possibilmente a zero o addirittura facendosi pagare (quantomeno in dati), per rivendere a molto. Se, invece, le piattaforme dovessero gestire le licenze di tutti i contenuti prima della loro pubblicazione da parte degli utenti, sarebbero morte prima di nascere. Certo, come detto, oggi si possono stipulare accordi “a catalogo” per il riutilizzo di opere protette.
Ma l’enorme quantità di contenuti indipendenti viene sistematicamente utilizzata senza che nessuno – nemmeno la tanto sbandierata “direttiva copyright” – si preoccupi di tutelarli. La prova empirica di questa conclusione è fornita da un esperimento concluso lo scorso aprile 2022 con un articolo di questo blog. È stato abusivamente riprodotto da un aggregatore di contenuti, segnalato all’Autorità per le comunicazioni sulla base dell’inutile “regolamento sul diritto d’autore”, successivamente scomparso dal sito pirata senza che nessuno, né l’editore, né l’oscuro cronista potessero ottenere quantomeno la soddisfazione morale della sanzione inflitta all’utilizzatore abusivo a seguito della “presa d’atto” dell’Autorità che il contenuto era stato rimosso. La violazione c’è stata, il responsabile è noto, ma nessuno paga (non necessariamente in termini monetari). In altri termini: è chiaro che l’abuso di contenuti riguarda in modo rilevante i grandi titolari dei diritti di sfruttamento di opere protette e delle riprese dei grandi eventi sportivi e culturali e che sono state attivate, a più livelli, delle contromisure. Non per questo, tuttavia, i “piccoli” dovrebbero essere abbandonati a loro stessi.
Dall’altro lato, non stupisce che chi è in preda dell’ossessione da post vada per le spicce quando sbatte online dei contenuti altrui senza preoccuparsi di avere il diritto di farlo o nascondendosi dietro l’ipocrita I do not own copyright on this video come se questo fosse sufficiente a giustificare un atto che, prima di essere illegale, è una volgare offesa a chi esprime la propria creatività.
In questo perfetto matrimonio di interessi coincidenti, ad essere tradito è il gran numero di creatori che non appartengono ad alcuna “scuderia”, e che dunque nemmeno vengono invitati alla cerimonia.
Una possibile via d’uscita a questo annoso problema potrebbe essere quella di costringere per legge le piattaforme ad accantonare una somma corrispondente al valore dei contenuti pubblicati dagli utenti e il cui diritto d’autore non è rivendicato o dichiarato. Meglio ancora: questa somma potrebbe essere richiesta direttamente all’utente al momento della pubblicazione, se l’utente dichiara di non avere i diritti sul contenuto del quale dovrebbe anche indicare l’autore. La piattaforma dovrebbe, quindi, girare le somme all’avente diritto o accantonarle in attesa che questi si faccia vivo. Il tutto, mantenendo ferme le regole già esistenti sugli usi liberi a tutela della libertà di espressione, di informazione e di insegnamento che già consentono, agli utenti in buona fede, di riprodurre opere protette create anche da sconosciuti senza il rischio di subire conseguenze legali.
È chiaro che di fronte ad azioni deliberatamente illegali come la sistematica appropriazione di contenuti altrui l’unico rimedio è una (efficace) sanzione giudiziaria. Tuttavia, benché la responsabilizzazione diretta degli utenti sia già prevista per legge, per decenni legislatori e corti hanno consistentemente ignorato questo principio. Non solo e non tanto perché “prendersela” con gli utenti avrebbe generato un numero ingestibile di processi per violazioni che, prese individualmente, sarebbero state poca cosa; quanto piuttosto per l’impopolarità politica di una scelta che avrebbe consentito alle piattaforme di lamentare un “innovazionicidio” e agli individui l’iniquità del punire minuzie del genere a fronte di “ben altri” reati.
A prescindere, tuttavia, dall’efficacia deterrente di norme draconiane sulla carta ma largamente inapplicabili e inapplicate nel mondo reale, chiedere a piattaforme e utenti che si avvantaggiano del riuso della creatività altrui di ricompensare chi consente loro di guadagnare soldi o scariche di dopamina è semplicemente un gesto di civiltà.
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