di Andrea Monti – PC Professionale n. 225 – dicembre 2009
Una sentenza del tribunale di Milano nega a un utente che aveva acquistato regolarmente un concerto in DVD il diritto di fare da se’ una copia privata o di ottenerne un’altra dal produttore del film.
La sentenza n. 8787/09 – pres. Rosa emessa dalla sezione specializzata per la proprietà intellettuale e industriale del tribunale Milano stabilisce un discutibile precedente a carico degli acquirenti legittimi di opere protette. Secondo il tribunale, infatti, pur avendo pagato la licenza d’uso di un video,
allo stato della tecnica quantomeno riferibile al 2004 l’apposizione di misure tecnologiche di protezione che impediscono anche l’esecuzione di una sola copia dell’opera non costituisce violazione del diritto di copia privata di cui all’art. 71 sexies L .A. (legge sul diritto d’autore, n.d.r.).
Senza troppi giri di parole, questa è una sentenza sbagliata sotto almeno tre profili.
Il primo: non affronta il rapporto fra la “copia privata” (art. 71 sexies L.A.) e la “copia di riserva” (art. 64 ter L.A.).
Il secondo: nega il diritto alla “copia fai-da-te”, ma evita di spiegare perché, allora, l’utente non può ottenere un secondo originale dal produttore del DVD (richiesta avanzata nella causa, ma nemmeno presa in considerazione dal giudice).
Il terzo: stabilisce che una limitazione tecnologica imposta per sanzionare gli illeciti giustifica la compressione di un diritto legittimamente acquisito.
Il fatto, in sintesi, è questo. L’acquirente del video di un concerto live di un gruppo rock inglese ambientato a Pompei, resosi conto di non poter eseguire una copia privata per la presenza del sistema Macrovision (che “guastando” il segnale sull’uscita analogica impedisce la copia) si rivolge al tribunale perché ordini al produttore di DVD di consentirgli l’esecuzione della copia privata o, se non fosse possibile, consegni un altro esemplare originale del DVD.
Per capire gli errori di questa sentenza, bisogna partire da tre premesse.
La prima: come per il software, anche nel caso delle opere audiovisive si acquista non la proprietà del contenuto ma solo il diritto d’uso, nei termini stabiliti dalla licenza. Quindi, se per qualche ragione il supporto di memorizzazione viene meno, il diritto di utilizzo del contenuto rimane in piedi. Per capire la differenza, basta pensare a quello che accade con il download legale di musica: si paga per il file, non per il supporto (che già si possiede).
La seconda: sui supporti di memorizzazione si paga il cosiddetto “equo compenso” (volgarmente noto come “tassa sui supporti”) che è un pagamento anticipato del diritto d’autore a fronte della copia-fai-da-te. Quindi, se si copia un’opera audiovisiva su un supporto vergine, i diritti d’autore sono già stati pagati e la copia è perfettamente lecita perchè il titolare dei diritti ha già ricevuto il proprio compenso.
La terza: oltre alla copia privata (art. 71 sexies L.A.) esiste anche la copia di riserva (art. 64 ter L.A.). La copia privata può essere eseguita senza un particolare motivo, mentre quella di riserva ha lo scopo specifico di proteggere l’utente dalla perdita o distruzione del supporto. E’ vero che che il diritto alla copia di riserva è stabilito espressamente solo per il software, ma nulla vieta che il principio sia esteso anche alle opere audiovisive. Di questo avviso fu, già nel lontano 1997, l’allora pretore di Pescara che assolvendo con la sentenza n. 1769/97 il titolare di una videoteca dal reato di duplicazione abusiva scrisse:
trova ingresso, quindi, la valutazione della necessaria separazione tra il diritto d’autore e la materialità dei supporto magnetico. La duplicazione serve appunto a preservare l’opera essendo, infatti, il supporto magnetico, di per sé, deteriorabile. In tal senso è la previsione dell’art. 64 ter c.II l.d.a. (633/41) … La ratio della norma è proprio quella di garantire il titolare dei diritti dal fisiologico scadimento o dalla distruzione dei supporto magnetico sul quale il programma è duplicato. E’ evidente che tale principio si applica anche alle videocassette che sono qualitativamente analoghe e sostituibili ai supporti utilizzati per la memorizzazione dei programmi.
Fatte queste premesse è evidente per quale ragione il tribunale di Milano abbia sbagliato.
Innanzi tutto, il titolare dei diritti percepisce sempre le sue royalty dalla copia privata. Quindi non subisce un danno. E, in secondo luogo, seppure non fosse fattibile consentire l’esecuzione casalinga della copia, nulla vieterebbe (anche ai sensi dell’art. 64 ter L.A.) di ordinare al titolare dei diritti di consegnare un secondo originale.
E’ inoltre non accettabile il principio secondo cui
non sembra possa ritenersi che tra il diritto di riproduzione ed il diritto alla copia privata sussista una parità di condizione in base alla quale procedere in caso di conflitto ad individuare in quali casi e circostanze l’uno debba prevalere sull’altro, ma piuttosto una situazione per cui l’assolutezza del diritto del titolare dei diritti di utilizzazione economica sull’opera può ritenersi limitata da quello del legittimo possessore dell’esemplare dell’opera a condizione che sussistano i presupposti specificamente indicati dal menzionato comma 4 dell’art. 71 sexies L.A.
In altri termini, chi detiene i diritti di sfruttamento economico di un’opera (attenzione: non necessariamente – anzi, quasi mai – l’autore) è in una posizione di superiorità rispetto all’utente. Che detto in altri termini, significa sanzionare chi rispetta la legge invece di chi la vìola.
Ma l’effetto più clamoroso di questa sentenza è quello di avere involontariamente dimostrato il difetto strutturale dei DRM (o almeno di quelli di un certo tipo): sono talmente rigidi da non consentire il rispetto della legge, tanto da spingere un tribunale a stabilire il principio che la tutela degli interessi economici di una parte (le majore dell’audiovisivo) può essere consentita anche usando sistemi tecnologici che non rispettano i diritti delle persone.
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