Secondo Repubblica.it, Il pubblico ministero di Roma ha chiesto l’archiviazione della querela presentata da Chiara Ferragni e Fedez per l’asserita diffamazione commessa da Daniela Martani su Facebook
con la motivazione che sui social si scrive “fuori da qualsiasi controllo”, anche utilizzando “termini scurrili”. Il reato di diffamazione non si configurerebbe, quindi, perché il contesto dei social in genere “priva dell’autorevolezza tipica delle testate giornalistiche o di altre fonti accreditate tutti gli scritti postati su internet.
Se quanto riporta il quotidiano romano è vero, il ragionamento del pubblico ministero non convince.
E’ ovviamente vero che Facebook non è una testata giornalistica, ma l’art. 595 c.p. parla di “stampa” o “altro mezzo di pubblicità” senza fare alcun riferimento all’autorevolezza o all’idoneità del mezzo utilizzato per veicolare l’insulto a dare “peso” a quanto dichiarato. Si arriverebbe all’assurdo che pubblicare frasi pesantissime ma su un sito a basso traffico, pur viste da “più persone” come vuole la norma, non sarebbe diffamazione perchè “è una roba da sfigati che nessuno legge”. E’ auspicabile, dunque, che il giudice per le indagini preliminari non accolga la richiesta per evitare la formazione di una giurisprudenza francamente poco rigorosa.
Inoltre, il reato – come la responsabilità penale – è un fatto personale. Facebook, quale fornitore di servizi di comunicazione elettronica – non ha avuto un ruolo attivo nel commettere l’asserita diffamazione, e dunque qualsiasi “aggancio” a un coinvolgimento della piattaforma non ha alcuna rilevanza.
Ma la forzatura interpretativa operata dal pubblico ministero di Roma ha, in realtà, un’altra lettura. Come scrivo nel capitolo dedicato all’evoluzione della giurisprudenza in materia di sequestro probatorio in un libro di prossima pubblicazione,
ci si dovrebbe porre il problema dell’aumento del carico di contezioso per fatti molto spesso bagatellari causato dall’enorme numero di utenti che quotidianamente utilizzano servizi telematici, aprendo una riflessione sulla necessità di un’ampia decriminalizzazione o – almeno – di una estesa depenalizzazione.
Il punto, dunque, non è se Facebook o altre piattaforme di social networking abbiano o meno “autorevolezza”, ma che gli utenti sono passati dall’ombra di un beato anonimato al sole rovente di una “notorietà relativa” analoga ai famosi quindici minuti di celebrità di Andy Wharol, Ma lo hanno fatto senza usare la crema solare a protezione 100, e dunque si “scottano” facilmente anche se si espongono per qualche minuto.
Fuor di metafora, è ora di decriminalizzare la diffamazione. Le procure della Repubblica hanno ben altro da fare che perdere tempo dietro alle beghe di poco momento, e che potrebbero ben essere gestite dal Questore grazie a una delle norme più ignorate dell’ordinamento giuridico italiano: l’art. 1 del Testo unico di pubblica sicurezza, che affida appunto al dirigente della Polizia di Stato il potere di comporre i privati dissidi.
Applicare questa norma – e non solo per la diffamazione (anche) via internet – invece di “inventarne” di nuove sarebbe l’uovo di Colombo.
Ma nessuno è interessato a scoprire l’America.
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